Lo spettacolo ‘Risate di gioia, storie di gente di teatro’, firmato e
interpretato da me e da Marco Sgrosso, si basa su una mia idea e su una
prima scrittura realizzata nel settembre 2019 per un lavoro di venti
minuti dal titolo ‘Lettera al mondo’ che presentai al Festival
Contemporanea di Prato nell’ambito di Alveare, un progetto dedicato alla
creatività femminile. Immaginavo di scrivere le mie lettere al mondo,
interrogandomi sulla funzione delle arti e del teatro, prendendo in giro
prima di tutto me stessa e poi anche le nostre abitudini di
privilegiati, osservando come fossero ormai evidente il malessere del
pianeta e di ogni società a causa delle ossessioni e dai falsi desideri
indotti dalla pubblicità, dal consumismo, dal presenzialismo. Avevo un
naso da clown e immaginavo di entrare in un teatro abbandonato dove
incontravo gli avi artisti: teatranti, scrittori, pittori, poeti. La
danzatrice e creatrice Chiara Bersani e le organizzatrici del suo gruppo
lo videro e mi invitarono nella loro stagione ad Asti nel 2022. Ma
intanto era cambiato il mondo: avevamo vissuto pandemia e clausura e
quelle prime visioni quasi premonitrici si erano arricchite di parole e
immagini fino a diventare uno spettacolo, lo stesso che portai in
Sardegna in estate. Il teatro abbandonato nel quale immaginavo di
entrare somigliava molto al primo teatro che vidi da bambina, il Teatro
Comunale di Russi, il paese dove sono nata. Fu chiuso negli anni ’70,
dopo una rovinosa ristrutturazione conclusasi con una dispettosa e
delinquente distruzione di palchi e soffitti affrescati nella speranza
di un prolungamento di appalto che invece fu revocato. Riaprii quel
portone dopo molti anni con una telecamera in mano e con il permesso e
la complicità di un’amministrazione comunale illuminata e coraggiosa.
Restai incantata dalla bellezza che resisteva alla distruzione e al
tempo. Parlavano i fantasmi. Cominciò così il lungo percorso di eventi,
‘false riaperture’, spettacoli, buffe provocazioni ad opera della
compagnia Le belle bandiere e di tutti i suoi amici che portò alla
ristrutturazione del teatro e alla sua riapertura nel 2001. Tutti
parteciparono: cittadini di ogni età, cultura, idea politica,
associazioni, banche, istituzioni. Fu un viaggio che mi cambiò la vita e
che mi riportò alle radici della mia storia e della mia vocazione. Mi
domandavo se l’esperienza privilegiata che stavo vivendo nella compagnia
Teatro di Leo di Leo de Berardinis, il mio maestro, potesse essere
trasmessa a tutti. Mi sentivo molto fortunata. A ventitré anni ero stata
scelta per fare parte di un gruppo straordinario e avevo già lavorato
in molti importanti teatri d’Italia. Avevo conosciuto il teatro vero,
grande, intenso, profondo. Il mio maestro mi stava consegnando strumenti
fondamentali per conquistare la mia libertà. Come potevo trasmettere a
tutti questo tesoro di scoperte, conoscenza, gioia? Mi sembrava, e
ancora lo credo, che il teatro potesse aiutare a crescere, conoscere,
conoscersi, liberarsi dagli stereotipi, dalle abitudini, dalle
schiavitù. Cominciai così, con l’aiuto di Marco Sgrosso e di molti
altri, un percorso che mi allontanava da quella che viene definita
‘carriera’, ma che mi avvicinava alla mia terra e alle persone. Il
teatro mi aiutava ad amare il mondo, a scoprirlo. Potevo diventare io
stessa uno strumento di conoscenza e, forse, di felicità.
Ancora non so dire nulla di quella scelta. Avevo già cominciato a creare, scrivere, dirigere, anche restando all’interno della compagnia di Leo, ma ora sentivo che dovevo, sempre più, creare una mia strada, una mia compagnia.
Fu allora che cominciò il percorso di ricerca intorno al teatro del passato che mi ha portato a questo ‘Risate di gioia’, anche se in qualche modo già lo avevo iniziato con Leo, ne ‘Totò Principe di Danimarca’ e ‘Il ritorno di Scaramouche’. In uno facevo parte di una scalcagnata compagnia di guitti che si intestardiva a mettere in scena Amleto e da soubrette mi trasformavo nella regina Gertrude, nell’altro incontrai le maschere della Commedia dell’Arte. Scelsi però due maschere speciali, mai usate in commedia: la maschera del dottore della peste con il suo lungo nasone e la bautta, nata per nascondere l’identità. Con queste armi scrissi e interpretai, con l’aiuto di Leo, il mio personaggio della Morte, comico e tragico, che tanto mi fu caro e che tanto rimase impresso nei ricordi di chi lo vide con il suo volo finale nel quale le mie braccia diventavano ali. Emergeva la mia ossessione verso il passato, la caducità delle nostre passioni, il racconto della vita di chi non c’è più, il desiderio di non temere più la morte conoscendola e incontrandola, così da farmela amica. Il teatro era ed è, così fragile com’è, il mio esorcismo contro la fine, la mia macchina del tempo. I luoghi abbandonati e dimenticati, come il Teatro Comunale o il Palazzo San Giacomo di Russi, uno solitario nel cuore del paese, uno addormentato tra le campagne in riva al fiume, i palazzi, le case vuote, le vecchie scuole, i luoghi d’arte sparsi per l’Italia che ho riaperto al pubblico attraverso gli spettacoli, sono per me pieni di fantasmi buoni che mi conducono, che mi parlano. Quando uscii dalla compagnia del mio maestro in modo turbolento, anche se per fortuna ci ritrovammo ancora più vicini poco tempo dopo, sentii che dovevo chiedere ad Eleonora Duse quale fosse la mia strada e dove mai volevo dirigermi. Creai così ‘Non sentire il male’ uno spettacolo itinerante dove ripercorrevo vita e pensiero di Eleonora perduta tra le stanze vuote e sventrate del Palazzo San Giacomo. Pensavo fosse uno studio utile soltanto a me e agli amici che condividevano la creazione, ma invece fu un’esperienza talmente potente che ancora mi accompagna, cambiando nel tempo con me. Duse, con il suo coraggio di essere se stessa, tanto diversa dal teatro del suo tempo, mi insegnava il coraggio di seguire la propria ispirazione, la dannazione e la benedizione del teatro con la sua capacità di portare altrove, di incatenare e liberare. Scoprii quanto aveva lottato per rinnovare personaggi e repertori, quanto, da ragazza. era stata osteggiata e denigrata per la sua diversità. Ebbi una entusiasmate sorpresa: le sue speranze e le sue delusioni, le vittorie e le sconfitte, la sua inquietudine intelligentissima e appassionata, non interessavano soltanto la gente di teatro, ma affascinavano ogni tipo di pubblico, che con lei si domandava cosa fosse davvero una vocazione e quanto sia importante sottrarsi al conformismo per osare essere se stessi. Nonostante fosse vissuta tanto di recente e fosse stata tanto famosa, molti ricordavano di lei soltanto il nome e il fatto che fosse stata ‘l’amante di Dannunzio’. Mi resi conto di quanto si dimentichino in fretta i maestri della nostra arte che si brucia in un istante nell’attimo presente, e di quanto ancora si faticasse ad accettare la grandezza di un poliedrico talento femminile, una grande interprete, ma anche una regista, una capocomica, una donna libera e curiosa che amava attraversare tutte le arti per arrivare fino al cinema. Lei, figlia d’arte in una povera compagnia girovaga, conquistò il mondo. Con lei, come se mi tenesse per mano, ho attraversato la grande stagione del teatro ottocentesco arrivando ai primi decenni del Novecento come in sogno, piangendo e gioendo come fossi lei, incontrando meravigliose artiste e artisti, cadendo e rialzandomi. Ancora molte domande restano aperte e continuano ad ispirarmi, ogni volta che ritorno a questo spettacolo: quanto il teatro ruba la vita, quanto la nutre? cosa significa la verità? in cosa consiste quel magico incanto che ci trasporta tutti altrove, in una dimensione dove spazio e tempo paiono annullarsi, dove siamo tutti fratelli? Sono domande senza risposta, ma che per la loro urgenza spingono a creare nonostante tutte le difficoltà e le disillusioni. Sono le stesse domande di molti che ci hanno preceduto.
Il fascino per gli antenati mi portò ad affrontare con Marco Sgrosso anche la straordinaria avventura dei comici dell’arte su richiesta e invito del generoso e geniale docente Gerardo Guccini che ci fornì tutte le indicazioni e la bibliografia indispensabili per affrontare le figure di Isabella e Francesco Andreini, una straordinaria coppia di artisti che portò la professione del teatro dalle piazze alle corti dei re. Con l’esempio delle loro vite e della loro compagnia sfatarono in parte il mito dei teatranti promiscui ed ignoranti, contribuirono a creare e a dare dignità ad un teatro di professionisti che fossero anche creatori e scrittori e sottrassero la loro arte al dilettantismo di nobili e letterati. Nacque così ‘La pazzia di Isabella - vita e morte dei Comici Gelosi’. Entrammo nelle sconvolgenti e avventurosissime vite di questi teatranti che sapevano scrivere, improvvisare, cantare, danzare, prendere spunto dalla realtà per farne satira o emozione, creando personaggi con il loro stesso nome che diventavano simboli. Sapevano stare accanto al potere e allo stesso tempo essere liberi, sapevano creare un loro mondo viaggiante che si muoveva accanto a quello stanziale conquistandone il favore e il rispetto. Quanto mi parvero più coraggiosi e liberi di noi, quanto mi insegnarono, con la loro capacità di rifiutare di entrare stabilmente nelle corti per difendere l’indipendenza, pur restando in dialogo con tutti. Mi hanno insegnato molto anche le illuminanti contraddizioni: Isabella fu la prima donna ad entrare nelle Accademie dei letterati, ma dimenticò di scrivere i testi che creava per la scena, creando una scia di mistero che ancora ci appassiona. Perché? Era forse impossibile riportare su carta la multidimensionalità dell’improvvisazione?
Come poterono convivere un tanto cosciente e minuzioso lavoro di costruzione di vite e carriere perché ne restasse memoria e una tanto sventata dispersione? Ancora mi interrogo. Simili seppure diversi misteri e domande e una lezione di irridente irriverenza e di anticonformismo pieno di rigore mi arrivarono anche dallo studio su Laura Betti, la protagonista del mio lavoro ‘Bimba, inseguendo Laura Betti’. Lei, eterna bambina innamorata di Pier Paolo Pasolini, a lui devota, mai sottomessa, fu capace di costringere grandi scrittori a scrivere canzoni il cui argomento fosse proprio lei stessa, per conoscersi, commuovere, prendere in giro, provocare, portare gli scrittori stessi più vicino alla gente. Attraverso di lei ho ritrovato un periodo della nostra storia nel quale immensi talenti di arti diverse si ritrovavano a interrogarsi su come cambiare il mondo, mentre si strappavano con violenza i fili che li legavano al passato. Roma era meravigliosa, ma l’Italia e il mondo cominciavano la corsa al consumismo che avrebbe distrutto la preziosa e fragile intelaiatura della cultura popolare. Pier Paolo disegnava con dolore la perdita di ogni innocenza.
Per ognuno di questi lavori ho potuto avere il piacere di studiare, leggere, cercare, di viaggiare nel tempo come se davvero potessi incontrare chi non c’è più, rivivere epoche lontane, vite non mie. Ad ogni viaggio mi sono resa conto di quanto sia effimera la nostra arte e di quanto possa essere prezioso invece continuare a raccontarla. Ho sentito quanto i nostri gesti, la nostra ricerca di autenticità che pare mutare di segno ad ogni generazione, sia invece il frutto di un lavorio lento e antico, di una trasmissione da persona a persona che forse mi riporta accanto i gesti degli antichi greci. Ho cercato di supplire con l’immaginazione e l’empatia alla mancanza di documenti, di registrazioni, di video. Ho capito quanto questi mezzi siano illusori e quanto siano lontani dalla verità e dalla qualità dell’esperienza dal vivo. Ho avuto l’illusione che siamo in qualche modo dotati di arti medianiche che possono davvero proiettarci nel passato.
E arriviamo a Risate di gioia. Quando ci fu proposto dal Centro Teatrale Bresciano di mettere in scena ‘Caduto fuori dal tempo’ di Grossman, spettacolo che poi ebbe un grande successo e per il quale lui stesso, venuto da Israele in occasione del debutto, ebbe parole molto toccanti, io accettai, ma solo se poi avessimo potuto realizzare questo nuovo lavoro, una scrittura originale dedicata ai nostri avi, colti nel passaggio tra la tradizione ottocentesca e il novecento, passando attraverso il varietà fino ad arrivare al salto verso il cinema.
Non avevo ancora materiali, non avevo scritto ancora una parola, ma avevo letto ‘Il teatro all’antica italiana’ si Sergio Tofano e l’’Antologia del grande attore’ di Vito Pandolfi e possedevo tutta quella collezione di biografie, autobiografie, epistolari, saggi, documenti che mi faceva sentire parte di una famiglia, anche se non ero davvero figlia d’arte. I miei genitori erano insegnanti, i primi della loro famiglia ad essersi laureati. Erano intelligenti, brillanti, per nulla conformisti, ma di certo non avrebbero mai immaginato per me una vita nel teatro, anche se poi accolsero nella loro casa teatranti da tutta Italia. Avevo la necessità di scoprire, rivivendola in teatro, la storia di un popolo di artisti che nessuno raccontava più. Volevo sentirla dalla loro voce, volevo rievocarli, sentire l’odore di quei palcoscenici, di quei camerini. Era come ritrovare una seconda vita, un’origine misteriosa. Mi domandavo come fosse possibile che nessuno ricordasse più le esistenze singolari di donne e uomini che erano stati adorati perchè portavano il sogno nelle vite di tutti.
Poi arrivò la visione di ‘Lettera al mondo’. Mi trovo in un teatro che assomiglia al primo teatro che vidi da bambina, ormai abbandonato e distrutto. Il tempo è stato sapiente. Ha creato colori che non so definire, ma che si mescolano con un’armonia che nessuno scenografo potrebbe cogliere. Il sipario, lo schermo del cinema, le quinte, pendono qua e là con l’arte sottile del caso. Uno squarcio nel soffitto lascia entrare la luce del sole con un effetto che mi incanta. Appena sono entrata, il suono del mondo di fuori si è allontanato. Il tempo si è fermato. Vecchie fotografie e manifesti sono sparsi per terra, tra la polvere. Il vecchio quadro dei comandi elettrici, tutto ottone e porcellana, mi pare un gioiello. Nella ristrutturazione si perse. Fu buttato. Come furono buttate e perse le seggioline di ferro battuto e velluto rosso che ora vedo accatastate in platea. Ne salvammo due, che sono in scena, ora, nello spettacolo.
Questo teatro, che mi incatena a sé, che mi porta via dal teatro e mi riporta dove sono nata, diventa tutti i teatri dove ho recitato, bianchi e oro, azzurri e rossi, immensi e minuscoli, ricchi e modesti, abbandonati e amati. Perchè non c’è nessuno? Chi ride, chi sussurra, chi si muove? Sono loro, gli antenati. Sono gli stregati dal teatro, figli d’arte e no. Li vedo arrivare tutti, dall’antichità a ieri, a oggi. Slegano le corde, fanno volare i fondali. Il teatro diventa una grande nave volante, mentre tutti vanno al loro posto. E per tutti c’è posto. Il teatro vola. Il teatro esce dal teatro e va nel mondo, dove serve, dove molti non sanno nemmeno di quanto del teatro abbiano bisogno. Si infila tra le strade, vola sul mare, nelle grandi città, nei paesi. Il teatro, scacciato dai teatri, vive tra la gente, si trasforma, racconta. Ancora una volta fa da specchio al mondo perché ci si possa guardare, riconoscere, perché ognuno di sè possa ridere e piangere. E capire.
Ho avuto la necessità di ricucire lo strappo con i miei antenati, con il patrimonio dell’arte del passato. Sono curiosa del nuovo, sempre, ma non per questo mi piace essere figlia di nessuno, non per questo voglio esimermi dal ringraziare chi mi ha preceduto, dal riconoscere con gratitudine le maestre e i maestri. La storia del teatro mi insegna quanto ogni nostro successo derivi da quanto altri hanno già fatto, da quanto altri ci hanno insegnato e quanto ogni insuccesso possa essere perdonato e diventare il gradino per lo spettacolo futuro.
Ho pensato al film ‘Risate di gioia’ nel quale i due sommi Anna Magnani e Totò interpretano due attori da niente, che vivono facendo comparsate al cinema e qualche spettacolo di varietà. E’ la prima volta che recitano insieme al cinema, ma sembrano fratelli, sembra che arrivino dritti dai palcoscenici della Commedia dell’arte. Forse tutta la gavetta, tutto il varietà che hanno praticato insieme li ha allacciati per sempre? Come nel film, li abbiamo immaginati nella notte di Capodanno, soli, senza un luogo dove festeggiare. Prendiamo i loro nomi: Umberto e Tortorella. Si fanno compagnia tra loro ed entrano in un teatro abbandonato dove incontrano i fantasmi delle artiste e degli artisti del passato, di tutti coloro, famosi e sconosciuti, artisti e maestranze, che facevano parte del popolo della gente di teatro. Parlano uno strano romanesco bastardo che li rende maschere e si scoprono innamorati della loro arte più che mai, nonostante le miserie, gli insuccessi e le disillusioni.
Anche nel caso di ‘Risate di gioia, storie di gente di teatro’, come fu per il lavoro su Duse, temevo di avere trascinato Marco in un lavoro che potesse interessare soltanto a noi. Invece lo spettacolo ha cominciato a volare da sé, anche se sono tempi difficilissimi per il teatro, specialmente se non si rientra nella pratica degli ‘scambi di spettacolo’ tra i teatri che negli ultimi tempi ha sostituito il mercato e la pratica della promozione e distribuzione. Il pubblico è incuriosito, incantato, interessato, ride e si commuove. La critica si è lasciata affascinare e siamo in attesa di nuovi riscontri, visto che lo spettacolo è ancora giovane. Direttrici e direttori di teatro ci hanno chiamato spinti dalla curiosità e dall’interesse e chi ha visto lo spettacolo alle sue prime repliche ha convinto altri a seguirci. Non potevamo sperare di meglio, visto che, nonostante i molti anni di lavoro e il successo di molti spettacoli, continuiamo a scegliere una via di libertà creativa e di indipendenza, seppure con il sostegno di prestigiosi e preziosi collaboratori, teatri, produttori. La gioia più grande è sentire come la storia del teatro e dei teatranti, nelle sue altezze e precipizi, innamori pubblico di ogni provenienza ed età. L’eterna infanzia della gente di teatro, le vite sghembe, le intemperanze e le saggezze, vengono vissute anche come un sacrificio felice fatto a nome di tutti, come se quel salire sul palco fosse l’esporsi di qualcuno perché siano possibili la consapevolezza, la conoscenza e la vicinanza di tutti gli altri. Attraverso l’esperienza di ‘Risate di gioia’ ho risentito, attraverso le vite altrui, il senso e la necessità delle arti che aiutano a sentire insieme e a dire senza dirli i misteri della vita. Attraverso le difficoltà e le pene degli avi, ho accettato con più grazia di sopportare quelle del presente, anche se si pensava che certi periodi bui non dovessero ripetersi. La battaglia non finisce mai, essere pronti è tutto. E la storia ci insegna ad essere nuovi e coraggiosi nel presente, ad ascoltare e guardare senza dare mai nulla per scontato.
‘Risate di gioia’ ha rinnovato per me, e sono certa, anche per Marco, l’antico patto con l’incanto del teatro, che è fatto di grandi artisti famosi, ma anche di artisti dimenticati, di una folla di persone preziose delle quali oggi non esiste neppure più il mestiere, di suggeritori, trovarobe, musicisti, portaceste, sarte, cantanti. Ci guardiamo indietro non con polverosa nostalgia, ma con la fierezza di avere scelto un mestiere che pur cambiando nel tempo riserva ad ognuno il suo posto e chiede ad ognuno il meglio per fare funzionare un organismo che, pur gerarchico, senza l’apporto di ognuno, muore. Il teatro, anche quando è esiliato e travestito da passatempo, continua a vivere, sotterraneo, e insegna sempre il reciproco ascolto, la libertà, la ribellione alla prepotenza, la risata che libera, la lacrima che avvicina, l’umiltà. Nel teatro alto e basso stanno sempre accanto, sublime poesia e chiodo piantato nel legno a volte sono la stessa cosa.
Ancora non so dire nulla di quella scelta. Avevo già cominciato a creare, scrivere, dirigere, anche restando all’interno della compagnia di Leo, ma ora sentivo che dovevo, sempre più, creare una mia strada, una mia compagnia.
Fu allora che cominciò il percorso di ricerca intorno al teatro del passato che mi ha portato a questo ‘Risate di gioia’, anche se in qualche modo già lo avevo iniziato con Leo, ne ‘Totò Principe di Danimarca’ e ‘Il ritorno di Scaramouche’. In uno facevo parte di una scalcagnata compagnia di guitti che si intestardiva a mettere in scena Amleto e da soubrette mi trasformavo nella regina Gertrude, nell’altro incontrai le maschere della Commedia dell’Arte. Scelsi però due maschere speciali, mai usate in commedia: la maschera del dottore della peste con il suo lungo nasone e la bautta, nata per nascondere l’identità. Con queste armi scrissi e interpretai, con l’aiuto di Leo, il mio personaggio della Morte, comico e tragico, che tanto mi fu caro e che tanto rimase impresso nei ricordi di chi lo vide con il suo volo finale nel quale le mie braccia diventavano ali. Emergeva la mia ossessione verso il passato, la caducità delle nostre passioni, il racconto della vita di chi non c’è più, il desiderio di non temere più la morte conoscendola e incontrandola, così da farmela amica. Il teatro era ed è, così fragile com’è, il mio esorcismo contro la fine, la mia macchina del tempo. I luoghi abbandonati e dimenticati, come il Teatro Comunale o il Palazzo San Giacomo di Russi, uno solitario nel cuore del paese, uno addormentato tra le campagne in riva al fiume, i palazzi, le case vuote, le vecchie scuole, i luoghi d’arte sparsi per l’Italia che ho riaperto al pubblico attraverso gli spettacoli, sono per me pieni di fantasmi buoni che mi conducono, che mi parlano. Quando uscii dalla compagnia del mio maestro in modo turbolento, anche se per fortuna ci ritrovammo ancora più vicini poco tempo dopo, sentii che dovevo chiedere ad Eleonora Duse quale fosse la mia strada e dove mai volevo dirigermi. Creai così ‘Non sentire il male’ uno spettacolo itinerante dove ripercorrevo vita e pensiero di Eleonora perduta tra le stanze vuote e sventrate del Palazzo San Giacomo. Pensavo fosse uno studio utile soltanto a me e agli amici che condividevano la creazione, ma invece fu un’esperienza talmente potente che ancora mi accompagna, cambiando nel tempo con me. Duse, con il suo coraggio di essere se stessa, tanto diversa dal teatro del suo tempo, mi insegnava il coraggio di seguire la propria ispirazione, la dannazione e la benedizione del teatro con la sua capacità di portare altrove, di incatenare e liberare. Scoprii quanto aveva lottato per rinnovare personaggi e repertori, quanto, da ragazza. era stata osteggiata e denigrata per la sua diversità. Ebbi una entusiasmate sorpresa: le sue speranze e le sue delusioni, le vittorie e le sconfitte, la sua inquietudine intelligentissima e appassionata, non interessavano soltanto la gente di teatro, ma affascinavano ogni tipo di pubblico, che con lei si domandava cosa fosse davvero una vocazione e quanto sia importante sottrarsi al conformismo per osare essere se stessi. Nonostante fosse vissuta tanto di recente e fosse stata tanto famosa, molti ricordavano di lei soltanto il nome e il fatto che fosse stata ‘l’amante di Dannunzio’. Mi resi conto di quanto si dimentichino in fretta i maestri della nostra arte che si brucia in un istante nell’attimo presente, e di quanto ancora si faticasse ad accettare la grandezza di un poliedrico talento femminile, una grande interprete, ma anche una regista, una capocomica, una donna libera e curiosa che amava attraversare tutte le arti per arrivare fino al cinema. Lei, figlia d’arte in una povera compagnia girovaga, conquistò il mondo. Con lei, come se mi tenesse per mano, ho attraversato la grande stagione del teatro ottocentesco arrivando ai primi decenni del Novecento come in sogno, piangendo e gioendo come fossi lei, incontrando meravigliose artiste e artisti, cadendo e rialzandomi. Ancora molte domande restano aperte e continuano ad ispirarmi, ogni volta che ritorno a questo spettacolo: quanto il teatro ruba la vita, quanto la nutre? cosa significa la verità? in cosa consiste quel magico incanto che ci trasporta tutti altrove, in una dimensione dove spazio e tempo paiono annullarsi, dove siamo tutti fratelli? Sono domande senza risposta, ma che per la loro urgenza spingono a creare nonostante tutte le difficoltà e le disillusioni. Sono le stesse domande di molti che ci hanno preceduto.
Il fascino per gli antenati mi portò ad affrontare con Marco Sgrosso anche la straordinaria avventura dei comici dell’arte su richiesta e invito del generoso e geniale docente Gerardo Guccini che ci fornì tutte le indicazioni e la bibliografia indispensabili per affrontare le figure di Isabella e Francesco Andreini, una straordinaria coppia di artisti che portò la professione del teatro dalle piazze alle corti dei re. Con l’esempio delle loro vite e della loro compagnia sfatarono in parte il mito dei teatranti promiscui ed ignoranti, contribuirono a creare e a dare dignità ad un teatro di professionisti che fossero anche creatori e scrittori e sottrassero la loro arte al dilettantismo di nobili e letterati. Nacque così ‘La pazzia di Isabella - vita e morte dei Comici Gelosi’. Entrammo nelle sconvolgenti e avventurosissime vite di questi teatranti che sapevano scrivere, improvvisare, cantare, danzare, prendere spunto dalla realtà per farne satira o emozione, creando personaggi con il loro stesso nome che diventavano simboli. Sapevano stare accanto al potere e allo stesso tempo essere liberi, sapevano creare un loro mondo viaggiante che si muoveva accanto a quello stanziale conquistandone il favore e il rispetto. Quanto mi parvero più coraggiosi e liberi di noi, quanto mi insegnarono, con la loro capacità di rifiutare di entrare stabilmente nelle corti per difendere l’indipendenza, pur restando in dialogo con tutti. Mi hanno insegnato molto anche le illuminanti contraddizioni: Isabella fu la prima donna ad entrare nelle Accademie dei letterati, ma dimenticò di scrivere i testi che creava per la scena, creando una scia di mistero che ancora ci appassiona. Perché? Era forse impossibile riportare su carta la multidimensionalità dell’improvvisazione?
Come poterono convivere un tanto cosciente e minuzioso lavoro di costruzione di vite e carriere perché ne restasse memoria e una tanto sventata dispersione? Ancora mi interrogo. Simili seppure diversi misteri e domande e una lezione di irridente irriverenza e di anticonformismo pieno di rigore mi arrivarono anche dallo studio su Laura Betti, la protagonista del mio lavoro ‘Bimba, inseguendo Laura Betti’. Lei, eterna bambina innamorata di Pier Paolo Pasolini, a lui devota, mai sottomessa, fu capace di costringere grandi scrittori a scrivere canzoni il cui argomento fosse proprio lei stessa, per conoscersi, commuovere, prendere in giro, provocare, portare gli scrittori stessi più vicino alla gente. Attraverso di lei ho ritrovato un periodo della nostra storia nel quale immensi talenti di arti diverse si ritrovavano a interrogarsi su come cambiare il mondo, mentre si strappavano con violenza i fili che li legavano al passato. Roma era meravigliosa, ma l’Italia e il mondo cominciavano la corsa al consumismo che avrebbe distrutto la preziosa e fragile intelaiatura della cultura popolare. Pier Paolo disegnava con dolore la perdita di ogni innocenza.
Per ognuno di questi lavori ho potuto avere il piacere di studiare, leggere, cercare, di viaggiare nel tempo come se davvero potessi incontrare chi non c’è più, rivivere epoche lontane, vite non mie. Ad ogni viaggio mi sono resa conto di quanto sia effimera la nostra arte e di quanto possa essere prezioso invece continuare a raccontarla. Ho sentito quanto i nostri gesti, la nostra ricerca di autenticità che pare mutare di segno ad ogni generazione, sia invece il frutto di un lavorio lento e antico, di una trasmissione da persona a persona che forse mi riporta accanto i gesti degli antichi greci. Ho cercato di supplire con l’immaginazione e l’empatia alla mancanza di documenti, di registrazioni, di video. Ho capito quanto questi mezzi siano illusori e quanto siano lontani dalla verità e dalla qualità dell’esperienza dal vivo. Ho avuto l’illusione che siamo in qualche modo dotati di arti medianiche che possono davvero proiettarci nel passato.
E arriviamo a Risate di gioia. Quando ci fu proposto dal Centro Teatrale Bresciano di mettere in scena ‘Caduto fuori dal tempo’ di Grossman, spettacolo che poi ebbe un grande successo e per il quale lui stesso, venuto da Israele in occasione del debutto, ebbe parole molto toccanti, io accettai, ma solo se poi avessimo potuto realizzare questo nuovo lavoro, una scrittura originale dedicata ai nostri avi, colti nel passaggio tra la tradizione ottocentesca e il novecento, passando attraverso il varietà fino ad arrivare al salto verso il cinema.
Non avevo ancora materiali, non avevo scritto ancora una parola, ma avevo letto ‘Il teatro all’antica italiana’ si Sergio Tofano e l’’Antologia del grande attore’ di Vito Pandolfi e possedevo tutta quella collezione di biografie, autobiografie, epistolari, saggi, documenti che mi faceva sentire parte di una famiglia, anche se non ero davvero figlia d’arte. I miei genitori erano insegnanti, i primi della loro famiglia ad essersi laureati. Erano intelligenti, brillanti, per nulla conformisti, ma di certo non avrebbero mai immaginato per me una vita nel teatro, anche se poi accolsero nella loro casa teatranti da tutta Italia. Avevo la necessità di scoprire, rivivendola in teatro, la storia di un popolo di artisti che nessuno raccontava più. Volevo sentirla dalla loro voce, volevo rievocarli, sentire l’odore di quei palcoscenici, di quei camerini. Era come ritrovare una seconda vita, un’origine misteriosa. Mi domandavo come fosse possibile che nessuno ricordasse più le esistenze singolari di donne e uomini che erano stati adorati perchè portavano il sogno nelle vite di tutti.
Poi arrivò la visione di ‘Lettera al mondo’. Mi trovo in un teatro che assomiglia al primo teatro che vidi da bambina, ormai abbandonato e distrutto. Il tempo è stato sapiente. Ha creato colori che non so definire, ma che si mescolano con un’armonia che nessuno scenografo potrebbe cogliere. Il sipario, lo schermo del cinema, le quinte, pendono qua e là con l’arte sottile del caso. Uno squarcio nel soffitto lascia entrare la luce del sole con un effetto che mi incanta. Appena sono entrata, il suono del mondo di fuori si è allontanato. Il tempo si è fermato. Vecchie fotografie e manifesti sono sparsi per terra, tra la polvere. Il vecchio quadro dei comandi elettrici, tutto ottone e porcellana, mi pare un gioiello. Nella ristrutturazione si perse. Fu buttato. Come furono buttate e perse le seggioline di ferro battuto e velluto rosso che ora vedo accatastate in platea. Ne salvammo due, che sono in scena, ora, nello spettacolo.
Questo teatro, che mi incatena a sé, che mi porta via dal teatro e mi riporta dove sono nata, diventa tutti i teatri dove ho recitato, bianchi e oro, azzurri e rossi, immensi e minuscoli, ricchi e modesti, abbandonati e amati. Perchè non c’è nessuno? Chi ride, chi sussurra, chi si muove? Sono loro, gli antenati. Sono gli stregati dal teatro, figli d’arte e no. Li vedo arrivare tutti, dall’antichità a ieri, a oggi. Slegano le corde, fanno volare i fondali. Il teatro diventa una grande nave volante, mentre tutti vanno al loro posto. E per tutti c’è posto. Il teatro vola. Il teatro esce dal teatro e va nel mondo, dove serve, dove molti non sanno nemmeno di quanto del teatro abbiano bisogno. Si infila tra le strade, vola sul mare, nelle grandi città, nei paesi. Il teatro, scacciato dai teatri, vive tra la gente, si trasforma, racconta. Ancora una volta fa da specchio al mondo perché ci si possa guardare, riconoscere, perché ognuno di sè possa ridere e piangere. E capire.
Ho avuto la necessità di ricucire lo strappo con i miei antenati, con il patrimonio dell’arte del passato. Sono curiosa del nuovo, sempre, ma non per questo mi piace essere figlia di nessuno, non per questo voglio esimermi dal ringraziare chi mi ha preceduto, dal riconoscere con gratitudine le maestre e i maestri. La storia del teatro mi insegna quanto ogni nostro successo derivi da quanto altri hanno già fatto, da quanto altri ci hanno insegnato e quanto ogni insuccesso possa essere perdonato e diventare il gradino per lo spettacolo futuro.
Ho pensato al film ‘Risate di gioia’ nel quale i due sommi Anna Magnani e Totò interpretano due attori da niente, che vivono facendo comparsate al cinema e qualche spettacolo di varietà. E’ la prima volta che recitano insieme al cinema, ma sembrano fratelli, sembra che arrivino dritti dai palcoscenici della Commedia dell’arte. Forse tutta la gavetta, tutto il varietà che hanno praticato insieme li ha allacciati per sempre? Come nel film, li abbiamo immaginati nella notte di Capodanno, soli, senza un luogo dove festeggiare. Prendiamo i loro nomi: Umberto e Tortorella. Si fanno compagnia tra loro ed entrano in un teatro abbandonato dove incontrano i fantasmi delle artiste e degli artisti del passato, di tutti coloro, famosi e sconosciuti, artisti e maestranze, che facevano parte del popolo della gente di teatro. Parlano uno strano romanesco bastardo che li rende maschere e si scoprono innamorati della loro arte più che mai, nonostante le miserie, gli insuccessi e le disillusioni.
Anche nel caso di ‘Risate di gioia, storie di gente di teatro’, come fu per il lavoro su Duse, temevo di avere trascinato Marco in un lavoro che potesse interessare soltanto a noi. Invece lo spettacolo ha cominciato a volare da sé, anche se sono tempi difficilissimi per il teatro, specialmente se non si rientra nella pratica degli ‘scambi di spettacolo’ tra i teatri che negli ultimi tempi ha sostituito il mercato e la pratica della promozione e distribuzione. Il pubblico è incuriosito, incantato, interessato, ride e si commuove. La critica si è lasciata affascinare e siamo in attesa di nuovi riscontri, visto che lo spettacolo è ancora giovane. Direttrici e direttori di teatro ci hanno chiamato spinti dalla curiosità e dall’interesse e chi ha visto lo spettacolo alle sue prime repliche ha convinto altri a seguirci. Non potevamo sperare di meglio, visto che, nonostante i molti anni di lavoro e il successo di molti spettacoli, continuiamo a scegliere una via di libertà creativa e di indipendenza, seppure con il sostegno di prestigiosi e preziosi collaboratori, teatri, produttori. La gioia più grande è sentire come la storia del teatro e dei teatranti, nelle sue altezze e precipizi, innamori pubblico di ogni provenienza ed età. L’eterna infanzia della gente di teatro, le vite sghembe, le intemperanze e le saggezze, vengono vissute anche come un sacrificio felice fatto a nome di tutti, come se quel salire sul palco fosse l’esporsi di qualcuno perché siano possibili la consapevolezza, la conoscenza e la vicinanza di tutti gli altri. Attraverso l’esperienza di ‘Risate di gioia’ ho risentito, attraverso le vite altrui, il senso e la necessità delle arti che aiutano a sentire insieme e a dire senza dirli i misteri della vita. Attraverso le difficoltà e le pene degli avi, ho accettato con più grazia di sopportare quelle del presente, anche se si pensava che certi periodi bui non dovessero ripetersi. La battaglia non finisce mai, essere pronti è tutto. E la storia ci insegna ad essere nuovi e coraggiosi nel presente, ad ascoltare e guardare senza dare mai nulla per scontato.
‘Risate di gioia’ ha rinnovato per me, e sono certa, anche per Marco, l’antico patto con l’incanto del teatro, che è fatto di grandi artisti famosi, ma anche di artisti dimenticati, di una folla di persone preziose delle quali oggi non esiste neppure più il mestiere, di suggeritori, trovarobe, musicisti, portaceste, sarte, cantanti. Ci guardiamo indietro non con polverosa nostalgia, ma con la fierezza di avere scelto un mestiere che pur cambiando nel tempo riserva ad ognuno il suo posto e chiede ad ognuno il meglio per fare funzionare un organismo che, pur gerarchico, senza l’apporto di ognuno, muore. Il teatro, anche quando è esiliato e travestito da passatempo, continua a vivere, sotterraneo, e insegna sempre il reciproco ascolto, la libertà, la ribellione alla prepotenza, la risata che libera, la lacrima che avvicina, l’umiltà. Nel teatro alto e basso stanno sempre accanto, sublime poesia e chiodo piantato nel legno a volte sono la stessa cosa.