di Elena Bucci
Quando fummo invitati a partecipare a questa giornata, noi, del nucleo storico bolognese del Teatro di Leo, pensammo ad un intervento collettivo che testimoniasse la forza di un’esperienza che ancora ci unisce. Ognuno scelse un tema o uno spettacolo. Per me fu Il ritorno di Scaramouche.
Ogni volta che ci incontriamo siamo di nuovo compagnia, seppur lontani e diversi: ritrovo una tribù che condivide linguaggi, visioni etiche e strumenti che Leo ci aiutò a riconoscere e sviluppare e che reggono alla prova del tempo. Abbiamo avuto una straordinaria palestra dove misurare libertà e responsabilità, errori e scoperte. Mi sento parte di un libro che nessuno scrive. I ricordi di ognuno si moltiplicano attraverso i ricordi altrui come accade nelle veglie. Il nostro patrimonio di fatti e conoscenze, arricchito dalla natura divertente, malinconica, equivoca, autentica e fragile dell’aneddoto, sembra diventare parte della storia misteriosa della nostra arte e ne ritroviamo il valore, dimenticato nelle urgenze del presente. Il libro che siamo esiste, ma si esita a scriverlo, per paura di sbiadire i particolari, per la difficoltà di trovare una lingua che restituisca la tridimensionalità dell’esperienza, per un vago ma persistente senso di inferiorità nei confronti della storiografia più scientifica e ufficiale.
Eppure ancora oggi, dopo tanti anni, mi capita di incontrare persone che, con una luce particolare negli occhi, mi chiedono: «Tu sei la Morte, vero?». Era il personaggio ridicolo e straziato che avevo scelto di mettere in maschera. Dicono: «Ricordo Il ritorno di Scaramouche come fosse ora, dopo averlo visto ho scelto di fare teatro, ho cambiato il mio modo di vivere il teatro». Il libro che sogno ha già cominciato a scriversi da solo, per frammenti. Attori, autori, capocomici, tecnici possono contribuire con la loro voce.
La scarsa documentazione esistente è di poco aiuto: ho rivisto Il ritorno solo una volta, in una ripresa di contrabbando – Leo non voleva riprese video, le riteneva bugiarde – una camera fissa che vidi seduta sul divano di Pupetto Castellaneta, via dell’Orsa, Roma. Ancora una volta Leo aveva ragione: le nostre figurine erano fantasmi luminosi sullo schermo, le voci suonavano lontane e povere, non restituivano nessuna vera traduzione della magia dello spettacolo. Che miseria, che delusione. Molto meglio il ricordo, seppure deformato dall’emotività e dalla selezione individuale: un relitto vivo.
In quel tempo sentivamo che stava accadendo qualcosa di speciale, percepivamo la forza delle relazioni e della stratificazione dell’esperienza espressa in ogni gesto, la potenza spinta al massimo di quel gioco folle e vertiginoso, sospeso tra alto e basso, vita e teatro, che Leo ci spingeva a praticare. Ne ritrovavamo le radici nella forza eversiva della Commedia dell’Arte, nelle sue maschere senza riguardo e senza padroni.
Ma c’era dell’altro, insieme al dispiegarsi della consueta ma sempre sorprendente maestria nel montaggio, nella creazione delle luci con Maurizio Viani, nella definizione di una scena nuda che evocava mondi.
Cosa aveva visto la gente in noi? La potenza di una compagnia che aveva condiviso per anni un linguaggio e un viaggio che ora esplodeva nelle sue iridescenti rifrazioni, diverse per ognuno? Il punto di passaggio tra Leo e noi, la parabola della crescita estrema prima dell’esplosione e della dispersione? Il passaggio di età e di coscienza di un uomo di genio, le maschere della Commedia dell’Arte che tornavano dal passato portando ribellione, libertà, mistero?
C’era tutta la struggente poesia del teatro che, come sempre, crea e disperde, ma con un gesto poetico e distruttivo in più che ne aumentava il fascino: la dissoluzione di una compagnia.
Forse il pubblico sentiva, come noi, che si stava celebrando l’ultimo rito di un processo di iniziazione che si sarebbe presto concluso. Eravamo ormai ricchi di una forza invisibile che ancora non conoscevamo, nessuno era preparato a edificare imperi, ma non avevamo necessità di farlo. Allora compresi l’espressione “Leo dalle molte vite” e il valore della stratificazione delle esperienze nella biografia di un artista: nel momento del cambiamento riaffioravano il Leo di Roma, di Marigliano, il Leo di Perla, con tutto il fascino e il carico della paura, della giovinezza e della sua perdita, dell’alcol, della spinta all’autodistruzione, all’irrisione, alla rivolta. Leo ci stava per abbandonare perché ognuno andasse per la sua strada. Distruggere per creare. Eravamo all’apice nel nostro percorso, sospeso tra pratica della libertà e rigore tecnico, improvvisazione e scrittura, danza, musica e canto. Un percorso cominciato per me dalle prime ricerche sul suono di Goneril in Re Lear, dove con chitarroni giganti e microfoni davamo vita alla tempesta, passando dall’invito di Leo a creare una drammaturgia originale su musica di Coltrane, a partire da riflessioni scientifiche per Novecento e Mille, dalla scelta dello stato di coscienza – mai dire personaggio con lui! – chiamato Clitemnestra per Quintett, fino alla ricerca intorno a Gertrude madre di Amleto che mi ha accompagnato per tutto il viaggio nella compagnia.
Ora Leo ci portava in viaggio nel tempo dentro la Commedia dell’Arte, attraverso la sua capacità medianica di suggestione. Aveva immagini potenti che diventavano prove, domande, improvvisazioni, tentativi di scrittura personale, musiche, luci, spazio, immense aperture che quasi ubriacavano. Studiammo le maschere cinque giorni a Cervia, d’inverno. Tornammo e Leo disperse tutto quello che ci eravamo illusi di trovare. Arrivarono le maschere di Perocco, e ognuno di noi fu libero di scegliere le sue, inventandone gesti, voce e parole. La mia l’ho vista per la prima volta sulla faccia di Gino e ho sperato che la rifiutasse. Gliel’avrei strappata: la bautta, anonima, misteriosa, senza sesso, spiritosa e assassina. E poi mi innamorai della maschera del medico della peste.
Ero ossessionata dalla morte e dalla possibilità di poterla addomesticare. Avevo studiato all’università i nuovi storici francesi della quotidianità che mi parlavano di morte in pubblico e morte solitaria. Ora che mi ero avvicinata al mondo della Commedia dell’Arte o all’improvviso o degli istrioni, al tempo dei viaggi, dei lasciapassare, delle insegne, dei canovacci, dei lazzi, delle corti, trovavo la via per elaborare quelle riflessioni. Le maschere che mi hanno liberato dal ruolo di madre che Leo mi aveva assegnato da quando avevo ventitré anni, sono maschere di morte che non si portano di solito in teatro, non maschili, non femminili. Portandole, ho provato cosa sia la libertà da me stessa e dalla paura, ho praticato la follia dell’invenzione. Leo raccoglieva le nostre creazioni e le magnificava inserendole nel suo disegno. Ho potuto rinascere nuova nella mia stessa compagnia.
Non avemmo coscienza della forza del lavoro se non di fronte al pubblico. La prima prova aperta a Riolo Terme fu un’esaltante rivelazione, poi ritrovata in molte città d’Italia: il pubblico ci scriveva lettere, ci imitava nelle voci e nei gesti, ci aspettava numeroso alla fine dello spettacolo.
Dello spettacolo mi restano le fotografie di Marco Caselli Nirmal, niente manifesto, niente locandina. Mi sembrava un segno di morte preoccuparmi di conservare questi arredi.
Ho i fogli del copione, i miei appunti scarabocchiati e il libretto, una sola copia. Per fortuna c’è, ma sembra morto: la drammaturgia scritta non spiega la magia del teatro di Leo, proprio come le registrazioni.
Ho una maglietta con la mia foto stampata, tutta sbiadita, che mi ha regalato un macchinista della Fenice di Venezia l’autunno scorso dopo averla a lungo portata, tanto era forte il mito di quel nostro lavoro.
Ho i programmi di sala che mi ha regalato chi li aveva custoditi con cura.
Ricordo le musiche che Leo sceglieva per scatenare l’entusiasmo di ognuno e delle quali ritrovo intatto il potere, gli esercizi che facevo ogni giorno per conservare la velocità delle braccia necessaria alla trasformazione finale in ali, sotto la luce di Maurizio Viani. Ho il costume di velluto nero che mi è ritornato tra le mani dal magazzino del Teatro San Leonardo, nel quale eravamo stati convocati all’improvviso da qualcuno che voleva liberarsi di tutto. Di fronte alla mia disperazione nel vedere disperse quelle povere cose che, pur senza valore, avevano tutte un senso per noi, un ragazzo gentile si offrì di caricare nel suo furgone quello che era destinato alla spazzatura perché arrivasse in Romagna, dove lavoravamo. Tra gli stracci e la muffa, ecco il mio costume nero di velluto di seta, il più bel vestito che io abbia mai avuto, abito da cerimonia di un momento speciale e perfetto, dove ero più che mai sola e più che mai vicina a Leo e ai miei.
Antonio Alveario, con la penna, i saltelli, la parrucca gialla, la ricerca vana degli alessandrini.
Pupetto Castellaneta che sale i gradini del palchetto per fare Biccia la nutriccia. Cadrà? E lui come una volpe, sale e non cade, non cade mai.
Marco Manchisi Pulci, Pulcinella, furbo, spiritoso, eppure facile da abbindolare, buono.
Francesca Mazza, la Vita, e basta questo per dire tutto della potenza della sua figura rossa.
Gino Paccagnella, chi può dimenticare la sua faccia con gli occhialoni di Tristano? La rivelazione della sua forza comica?
Marco Sgrosso, Vongola tutto di velluto rosso bordeaux, inquietante, pauroso, esilarante, potente, con le gambe di molla, lo spirito veloce.
Erano tutti splendidi. Mentre li guardavo dalla panca, in scena, mi parevano non umani, mitici, animali e dèi. Grazie a Leo, Scaramouche tornava dal buio delle maschere della Commedia dell’Arte a insegnarci di nuovo lo sberleffo unito all’inchino, la creazione senza freni, la ribellione sorridente.
Se fossi ancora la Morte del Ritorno di Scaramouche, se fossi ancora quello scheletrino con la maschera bianca e le scarpe da ginnastica, che grazie a te saltava sul palco con la voce acuta, la Morte malinconica che non capiva perché tutti la sfuggissero e che provava schifo e pietà per gli umani, ti verrei a prendere dove sei e ti riporterei indietro: allora sì che sarebbe il ritorno di Scaramouche, sarebbe di nuovo Leo Pantalone che duellava con la sua stessa morte, che ci conduceva in alto, sarebbe l’eleganza della tua voce, la battuta, l’inchino e lo sberleffo. Io non sono più quella, ma come tu dicevi, il tempo non esiste, e quindi, con uno sgambetto, torni lo stesso, un Fool maestro dalla schiena dritta troppo presto dimenticato.
Torni anche grazie alla tenacia di qualcuno, grazie a quella misteriosa scia di memoria e di energia che non comanda, non ha padroni e resta.
pubblicato in Leo de Berardinis oggi, a cura di Laura Mariani e Cristina Valenti,
“Culture Teatrali” 28, Annale 2019