SU SANTA GIOVANNA

‘Santa Giovanna dei Macelli’ è un testo affascinante, straripante di punti di riflessione, specialmente in questi tempi, nei quali lo spettro di una grave crisi economica rende più sensibili al suo colorato e irridente grido di allarme.
Forse ciò che più mi ha incantato - riflettendo a lavoro terminato - è l’instancabile capacità di Bertolt Brecht di variare i punti di vista, usando tutti i mezzi del teatro e della scrittura, attingendo con grande libertà a temi mai apparsi in teatro e raccontandoli con i mezzi della cronaca, del cinema, della poesia, della farsa, senza temere commistioni e scandalosi innesti. Pare che l’artista Brecht tema, più di ogni altra cosa, il pregiudizio e la superficiale valutazione della realtà, basati sull’abitudine. Ci allena quindi alla salutare arte del dubbio che, se non protratta fino all’inazione, può consentire di intravedere, nel cuore di grandi crisi, altre vie di vivere e convivere.
Ci sono lavori dentro ai quali ci si butta a capofitto come in un amore sbagliato, sapendo che ostacoli ed ansie porteranno a nuove visioni di sè e del mondo. Così è stato per il viaggio in ‘Santa Giovanna’, un’opera complessa che, scritta a tratti come un testo teatrale, poi come una sceneggiatura cinematografica, si trasforma a tradimento in un trattato e all’improvviso vola verso la poesia passando attraverso appunti visionari in cerca di un nuovo linguaggio. Come se non bastasse prevede folle di attori e cambi di scena continui. In più, per ammissione dello stesso autore, racchiude diverse difficoltà di comprensione del difficile tema.
Noi eravamo soltanto in dodici, otto attori, un musicista e tre tecnici, supportati dalla produzione del Teatro Stabile Metastasio diretto dall’entusiasta e coraggioso Federico Tiezzi e ci siamo lanciati con gioia e un sottile ma tenace sentimento di necessità, in questa sfida.
Non mi sembrava possibile mettere in scena il testo, oggi, senza alludere all’impossibilità di metterlo in scena. Mi sembrava che potessimo soltanto trasformare in canto quel bellissimo e commovente tentativo, consapevolmente irragionevole, di mutare il mondo attraverso il teatro. Ho immaginato equivoci musicisti - non si sa se cantanti, strumentisti, direttori o sedicenti tali - molto assorti nel ruolo di maestri che si apprestano alla difficile esecuzione ‘in musica’ di questo testo.
Questa prima trasformazione ci ha aiutato ad operare il necessario distacco dal rischio dell’immedesimazione. Vi si è aggiunta poi l’idea di un abbigliamento improprio, tutto cilindri e paillettes - abiti da sera femminili riadattati per gli uomini, sovrapposizioni di stili per le donne - come se la nevrotica, astrale sovrabbondanza di immagini che dalle vetrine, dalla televisione, dai giornali ci assedia, fosse caduta a caso sulle spalle degli attori, in un’apparente confusione che ne rivela la disperata futilità. Ursula Patzak ha realizzato un’alchimia di particolari per allontanare icone esistenti, pur alludendovi continuamente.
Ed ecco un altro passo verso il distacco.
Come potevamo altrimenti, noi che abbiamo soltanto sfiorato i tempi della passione politica che osava voler cambiare il mondo, parlare di sciopero, operai davanti alle fabbriche, borsa, mercato?
Ci siamo sentiti armati per farlo soltanto denunciando la nostra dolorosa connivenza con il mondo del consumo e dell’abuso, avventurandoci nel testo con un dichiarato sgomento verso il futuro, con la sensazione comune del temporaneo fallimento delle ideologie e con il forte punto di riferimento della nostra arte teatrale.
Lo spazio è diventato tutto bianco: ci siamo resi conto che i Macelli evocati dal testo sono il nostro stesso mondo. Trattasi di elegantissimi Macelli, senza una goccia di sangue, senza violenze apparenti, ma nei quali si respira il gelo dei nostri moderni e solitari ospedali, la freddezza di molti luoghi di lavoro, l’estetica essenziale di alcuni luoghi di potere.
Maurizio Viani ha scelto luci forti e impietose, nelle quali gli attori possono muoversi con estrema libertà. Non privilegiano coloro che parlano, ma offrono piani diversi e un’unica arena quasi iperrealista.
Avevamo pensato a pedane da commedia dell’arte, ma anche questo aiuto scenografico, che creava drammatiche isole, è stato sostituito dal lavoro degli attori.
La sfida è stata quella di costruire gli ambienti attraverso corpi e voci, cercando una musica delle battute che si fondesse con i suoni di Andrea Agostini.
E poi il testo: dopo i primi timori reverenziali, è stato spostato, manipolato, introiettato, tradotto, perché raccontasse di nuovo una visione che è diventata storia e che, in teatro, deve tornare favola.
Tutto questo è stato fatto, spero, con un grande rispetto per la forza innovativa di Brecht, che ha tentato di fare irrompere violentemente il mondo reale nel teatro. Attraverso piccoli trucchi teatrali, spostamenti, scarti, credo che il lavoro sia diventato spiazzante e violento, a sua volta impietoso. Parole e concetti che sembravano acquisiti e ormai negli anni assimilati, al punto da dubitare se fosse il caso di ripeterli ancora - hanno risuonato per noi sul palco attualissimi, come fossero stati soltanto appannati per distrazione e ricordati poi all’improvviso nell’urgenza di una visione rinnovata di quello che stiamo vivendo al presente.
Abbiamo riconosciuto l’attualità della tentazione verso l’atto violento come via di uscita da un meccanismo infernale di sfruttamento dei deboli, ma allo stesso tempo, il paziente e mite lavoro teatrale è diventato per noi la soluzione non violenta all’angoscia verso un futuro ancora più oscuro di quello che Brecht immaginò.

(maggio 2008)