talismani e antidoti ovvero pronti a morire ovvero essere pronti è tutto
regia e drammaturgia Elena Bucci
con l'inserimento di brani tratti da "Venditori di paura" di Ermellina Drei e l'apporto di testi elaborati da improvvisazione
con Elena Bucci, Marco Sgrosso, Maurizio Cardillo, Nicoletta Fabbri, Filippo Pagotto, Daniela Alfonso
tastiere e violino Dimitri Sillato - direzione tecnica e disegno luci Matteo Nanni - suono e composizione ai sensori Raffaele Bassetti - installazioni e lampade Claudio Ballestracci - costumi Marta Benini - piccoli schermi Pierpaolo Spigolo Paolizzi - macchinismo e direzione di scena Giovanni Macis - assistente all'allestimento Federica Cremaschi con l'aiuto di Valeria Vicentini - foto Marco Ghidelli
Teatro Stabile di Napoli - Le belle bandiere in collaborazione con Comune di Russi e con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Provincia di Ravenna
debutto: 26 ottobre 2010, Teatro San Ferdinando, Napoli
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Facile. Prima era la paura. Ho anche barato. Sì sì, spesso contorcendomi sorridevo e la sera, guardando la mia faccia riflessa nel vetro pensavo che quella lì non mi era nemmeno parente. Dicevo che mi piaceva la confezione e come luccicava. Dicevo che avrei voluto essere tonda e perfetta come loro.
Obbedivo muta come un burattino. Quando dicevo, sono fatta così, parlavo del burattino, perché del resto non sapevo più niente.
Poi ho detto no e no e no. Finalmente coincidevo.
(dal diario di Ermellina Drei)
Il fatto che mi sembri l'emozione predominante di questi anni, qui, in Italia, ma forse anche più in là, non è una ragione per farne uno spettacolo.
Nemmeno il fatto che sia uno strumento di potere più affilato di un coltello lo è.
Ma se ascolto lo sgomento che provo di fronte alla violenza nascosta in molti gesti quotidiani, alla rigidità del camminare per strada, all'ombra di sospetto negli sguardi, se noto come l'ammirazione ceda il passo all'invidia, se mi stordisce l'apatia con la quale accogliamo anche gli eventi più drammatici, obliando le lotte importanti dell'ultimo secolo, se mi sembra che ogni gesto di invenzione si areni contro un muro di ragionevolissimi ostacoli, allora prende corpo una figura imperiosa e pallida, dallo sguardo vuoto di statua.
In teatro la paura è una compagna quotidiana e paziente che, una volta riconosciuta, aiuta la sfida.
Quella che invece vedo nel mondo, nel pensiero, nelle relazioni tra gli umani, è una paura che porta alla solitudine e alla rinuncia alla responsabilità, spegne la curiosità, avvelena il piacere della libertà, svuota il linguaggio, uccide i grandi sogni e approfitta della confusione tra benessere e felicità e della rimozione del pensiero della morte per annullare il potenziale eversivo, rivoluzionario e romanzesco insito in ogni singola vita.
Osservando e ascoltando, ho visto crescere la paura intorno a me, l'ho vista insinuarsi anche nelle più semplici azioni quotidiane, fino a instillarmi il dubbio che i ricordi di un mondo più libero e franco fossero soltanto sogni.
Cosa succederebbe se a comandare il mondo ci finisse la Paura, incoronata come Regina assoluta, capricciosa, impermeabile, madre, cattiva madre o matrigna?
Forse quello che sta accadendo ora.
Ci sono paure quiete e operose, dolci e amorevoli che ci accompagnano come maestre nel corso della vita, e ci sono paure larghe e striscianti, sempre senza volto, che impediscono ai pensieri di volare e alle utopie di decollare.
In certi momenti della storia la paura viene agitata come un vessillo, sveglia gli istinti peggiori e frena i migliori, chiude la visione sul futuro.
Ci manipola, ciechi, e diventa uno strumento potente nelle mani di pochi.
Cambia nome. Si veste di ragionevolezza, ragioni economiche, difesa, opportunità.
Può diventare così subdola da indurci a credere che basti chiudere gli occhi per non subire miseria, morte e malattia. Può renderci così insicuri da non osare nemmeno sperare di essere felici. Può farci credere che la felicità si compri o si baratti, può illuderci di riuscire a possedere ciò che non ha prezzo.
Può convincerci che sia meglio essere soli che solidali, vincitori o vinti anziché compagni, e più diversi di quanto non si sia uguali.
La Paura, quando diventa Regina, è bugiarda: svuota le parole di senso, le stacca dalla loro limpida concretezza e ne trasforma la forza creativa in strumento di potere. Cerco allora una scrittura originale, basata sull'improvvisazione, lavata dalla verità del corpo e dalle relazioni dal vivo; cerco una sintassi composita che attinga al dialetto e alla poesia, al turpiloquio e al linguaggio dei sogni, al parlato quotidiano e alle frasi che sentiamo rimbombare (come fossero protezioni al nulla) in televisione, nelle conversazioni pubbliche, nelle interviste.
Vorrei forzare il linguaggio 'di copertura' che tutti sembriamo comprendere, per rinnovare al mio orecchio le parole stesse e le espressioni.
Vorrei varcare i limiti della decenza nell'uso dell'autobiografia e connettere i diversi codici artistici della musica, della danza, della visione.
Se la Paura comandasse, chiuderebbe molti teatri e specialmente un teatro come il San Ferdinando, incastrato nel cuore di una città che urla e digerisce o rivela i cambiamenti con anni di anticipo rispetto alle altre.
Desidererebbe forse il Regno condividere al buio il mistero, la risata o la commozione?
Eh no, anzi. Ma poiché ancora La Paura non comanda, Napoli e il San Ferdinando sono il luogo dove intavolare un duello.
E siccome sognare non costa niente, mi piacerebbe che, per uno di quegli errori che valgono più di tante congetture e pensieri, questo spettacolo, come un rito di esorcismo collettivo, cominciasse nel mistero di un suono e in esso finisse, come si dice sia accaduto per il nostro povero mondo.
Quale suono? E che ne so?