PER LEO

Sono passati dieci anni dal saluto di Leo de Berardinis.
A Gioi, dove è nato, lo festeggiano e gli hanno intitolato una strada. >>
A Vallo della Lucania, dove gli hanno intitolato un teatro, hanno organizzato eventi e una mostra. >>
Mi è stato chiesto uno scritto che non mi soddisfa per nulla, ma che invio a loro e pubblico qui per tentare di aprire la strada ad altre testimonianze che ci aiutino a raccontare la storia di Leo e del teatro del nostro tempo.

Allenarsi al sogno

Ho incontrato Leo appena uscita dalla Scuola di teatro. Cercava giovani attori per formare una compagnia che potesse crescere nel tempo e accompagnarlo nel corso della sua ‘terza vita’ nella città di Bologna.
Per molti anni gli sono stata accanto acquisendo una sempre maggiore autonomia creativa e partecipando, insieme ai miei fratelli attori e tecnici, al mistero della creazione di quasi tutti gli spettacoli fino al 1999: dal primo Re Lear, dove ero Gonerill, all’Amleto dove giovanissima ed emozionata ero sua madre, fino a Il ritorno di Scaramouche, che mi regalò un ruolo che mi ha segnato, e alle ultime riletture del Lear, nelle quali duellavo con lui sulla musica del flamenco. Poi ho sentito che era arrivato il momento di prendere la mia strada e, staccandomi con fatica, ma restando sempre vicina, l’ho fatto.
L’ho seguito con tutta la dedizione possibile, domandando, cercando, scoprendo in me la sua stessa vocazione a fare coincidere il teatro con la vita, sognando che la pratica delle arti potesse contribuire a migliorare gli umani e il loro modo di stare al mondo.
Se parlo di me è soltanto perché mi rendo conto di quanto ancora sia da scoprire la sua ricchezza, e che molta della sua arte persiste nel corpo degli attori che hanno avuto la fortuna di averlo vicino davvero. Parte della sua storia è scritta nella nostra memoria, in quello che facciamo, nel modo in cui esprimiamo l’amore per il teatro come catalizzatore di energie e saperi.
Tutto questo, nei pochi libri che lo riguardano, non c’è. Ma il laboratorio continuo, l’edificazione di un teatro popolare di ricerca popolato di attori e creatori consapevoli e liberi, era il suo sogno più grande. Ancora lo è. Le sue parole, rilette oggi, rivelano la loro forza profetica e il disegno tracciato da un solitario che amava sognare una comunità felice e magica, dove la trasmissione e la ricerca fossero continue, dove le prove, come a volta con lui accadeva, fossero già spettacolo, prove di vita e d’arte insieme.
Leo mi ha cambiato la vita e lo sguardo: con pazienza e generosa intelligenza mi ha consegnato come meglio ha potuto gli strumenti del teatro, in un clima dove l’improvvisazione si mescolava alla lettura dei testi, la musica alle parole, il gesto alla danza, la disciplina alla rottura di ogni regola, la pratica del rigore a quella della libertà. Non ha sfruttato il mio cieco entusiasmo, il suo carisma, l’incanto: ha voluto rendermi libera, capace di esprimere la mia originale via.
Potrei continuare per pagine e pagine, evocando l’incanto vissuto nel condividere il palcoscenico con lui, la bellezza della sua risata e del suo sguardo ironico e possente, la sua capacità di guidare la navicella della compagnia attraverso le tempeste politiche, economiche, sociali, con una lucidità e una libertà che ne hanno fatto l’eroe di intere generazioni di registi e attori. Fra tutte, mi fermo ora sulla sua espressione appassionata quando cercava, insieme agli attori, il gesto, la provocazione, la conflagrazione, la scintilla che facesse di tutti noi, per un momento, teatro, la soluzione che ci trasformasse in pura energia viaggiante.
Leo era pieno di contraddizioni belle e vitali che rivelava senza proteggersi, come se attraverso la sua trasparenza si consegnasse a se stesso e agli altri come esperimento vivente, martire felice della ricerca dell’autentico, sensibile, sofferente, ilare creatura senza pelle in viaggio per il mondo.
Più passa il tempo e più da lui imparo, comprendendo anche quello che allora capivo, ma non potevo sentire. La sua lezione permane e si trasforma in chi l’ha conosciuto, in chi da lui resta affascinato. Come accade per i grandi maestri, diventa iridescente e mutevole, ma salda. Ispira a sparire nell’opera, a non cadere nelle trappole dell’egocentrismo e della paura di perdere tutto, anzi incita a perdersi, finalmente. In questa epoca di steccati e barriere è ancora più fulgida la sua stella.
Leo non amava le riprese video, temeva che le foto non restituissero la forza dell’arte dal vivo, teorizzava la sparizione del teatro insieme al corpo degli attori e l’impossibilità di farne storia e documento. E anche in questo caso, allo stesso tempo, meravigliosamente contraddittorio, faceva straordinarie ricerche sull’uso del video e della fotografia, usava l’arte del paradosso per incoraggiare la ricerca di nuovi metodi, o il ritorno ad antiche vie, per raccontare il teatro e gli attori.
E nonostante il grande amore di molti e la cura, come in vita non trovò casa pur edificandone molte, così ancora oggi gran parte della sua eredità non ha ancora trovato il suo racconto.
Con il suo tesoro ci ha consegnato un compito più che mai arduo e necessario: tenere in vita teatri liberi senza fissa dimora dove arti e riti sempre rinnovati connettano pensiero, sentimento e coscienza di molti per allenarli al sogno. E poi dovremo darne testimonianza, raccontando la storia di un’arte dal vivo ancora troppo silente.

(18 settembre 2018)