Sono onorata di essere stata invitata a partecipare a questo omaggio a chi si dedica con tanta innovativa qualità a offrire testimonianza storica e critica dell’inafferrabile arte del teatro. Comprendo Eleonora Duse quando rifiuta biografie e commemorazioni, ma sono grata a chi si dedica alla fatica, non sempre riconosciuta, di raccontarci la nostra storia. Anche per questo motivo ho scelto, rispetto alle mie regie e drammaturgie “in solo” più recenti, di occuparmi de La pazzia di Isabella. Vita e morte dei comici Gelosi, che ho scritto, diretto e interpretato in collaborazione con Marco Sgrosso, con la consulenza drammaturgia di Gerardo Guccini e il sostegno alla produzione del Centro di promozione teatrale La Soffitta di Bologna, luogo raro dove si coniugano ancora oggi accoglienza e rigore. Il progetto testimonia delle inedite intuizioni che nascono dalla commistione dei linguaggi e dei saperi: quello di Gerardo che ci propose il tema, alcune visioni e i materiali documentari per sostenere la drammaturgia, quello della direzione del Centro La Soffitta che ci diede sostegno e fiducia e quello della pratica di un linguaggio della scena che ho condiviso con Marco fin dai tempi di Leo [de Berardinis]. Senza tutto questo, non credo che avremmo potuto avventurarci in zone tanto misteriose quanto affascinanti, creando uno spettacolo che è in repertorio da allora e che dimostra come anche un tema tanto specifico possa incontrare i gusti di un pubblico vario e vasto. Inoltre rileggere ora le pagine che Gerardo ha dedicato allo spettacolo mi ha dato una visione del nostro percorso e delle sue affinità con i processi della Commedia dell’Arte che condivido in pieno ma che, nell’urgenza del debutto, forse per conservare l’incoscienza necessaria ad andare in scena, solo in parte avevo colto.
C’è poi un molteplice filo che unisce questo agli altri miei progetti: la visione del teatro come luogo del colloquio tra vivi e morti e tra autori e attori, dove trovano spazio scritture originali intorno a persone realmente vissute che mi hanno guidato con il loro mito luminoso e ispirato storie e invenzioni e dove ho elaborato una modalità di lavoro che ho scoperto anch’essa simile a ciò che si immagina fosse la commedia all’improvviso. Le scritture sceniche e le elaborazioni dei testi partono dalla raccolta di materiali molto vari che alimentano improvvisazioni scritte, riprese e corrette, mescolano i registri comici e tragici e si intrecciano a musica, canto, movimento fino alla creazione di personaggi originali in maschera e non, mentre l’apparato di scene, costumi e luci slitta da spettacolo a spettacolo, creando nuovi paesaggi attraverso variabili combinatorie. Macbeth, Hedda Gabler, Antigone, Bambini, Autobiografie di ignoti, Juana de la Cruz, Non sentire il male - dedicato a Eleonora Duse, La pazzia di Isabella, fino all’ultimo In canto e in veglia, sono un unico flusso dai molti riflessi che si adatta alle occasioni e agli spazi, sia che operi da sola o coadiuvata dal lavoro di preziosi compagni, da Marco a Maurizio Viani, a Raffaele Bassetti, al nucleo di attori e tecnici della compagnia. La scelta di centrare lo sguardo sul romanzo delle vite vuole forse essere uno sgambetto alla morte e certo rimanda alla scelta di una professione che, nell’esprimere la sua massima vitalità, si disfa. Tutti contrasti che confluiscono nel cuore di ispirazione de La pazzia di Isabella, insieme al fascino che provo per gli artisti che, a partire dal mio maestro Leo de Berardinis, fondono malattia e terapia, difendono un’indipendenza nel loro agire che dialoga con il pubblico e il potere, affastellano mestieri, creano poetiche, tracciano linee teoriche, ma trascurano, quasi per scaramanzia, la cura dei documenti che ne possano tramandare la storia. « [...] scomparvero misteriosamente tutti i suoi manoscritti e le sue lettere [...] tranne due comuni fogli di carta che recano la firma di Molière per la riscossione di denaro a favore della sua compagnia», scrive Michail Bulgakov nella sua innamorata biografia [Vita del signor de Molière, 1936]. Isabella e Francesco, attori, autori e capocomici della Compagnia dei Gelosi, vogliono dare autonomia e prestigio alla professione attraverso la consapevole creazione di compagnie, relazioni, maschere, personaggi e canovacci, sottraendo la pratica del teatro ai nobili e ai letterati, proiettandosi, nel breve spazio di un’esistenza, dalle piazze alle Corti e alle Accademie.
Eppure il loro desiderio di eternità convive con la mancanza di una precisa redazione dei canovacci usati in scena o di descrizioni delle azioni, dello spazio, della maschera, «della quale non parlano mai e che troviamo raffigurata portata sotto braccio s enza alcuna enfasi come uno strumento di lavoro qualsiasi», come recito nello spettacolo. È evidente anche il dissidio tra la necessità di intrecciare relazioni con il potere per ottenere il riconoscimento dell’esistenza e la volontà di conservare l’indipendenza dai soffocanti incarichi di corte e quello tra una vertiginosa scalata sociale scandita da inviti di re e onorificenze inusuali – come l’accoglienza di Isabella, unica donna, nell’Accademia letteraria degli Intenti di Pavia – e le aspre critiche degli Ugonotti che condannano la commedia all’improvviso come espressione di un mondo capovolto dal demonio. In scena sfavillano anche i contrasti tra l’uso di elementi colti e popolari, tra l’evocazione di figure della tradizione come il Capitano o l’Innamorata e la loro evoluzione in personaggi articolati che, prendendo il nome dai creatori, ne rivoluzionano la natura, mentre la pratica della captatio nelle dediche e presentazioni convive con quella, comica e dissacratoria, della presa in giro dello stesso pubblico e dei committenti. In confronto all’attuale rigidità nella definizione dei generi, la compresenza di stili e ispirazioni è ricca e mobile. Sullo sfondo resta sempre il confronto tra ciò che la scrittura consegna al futuro e il teatro all’improvviso che svapora.
Avevo già portato in scena storie di attori-autori, a partire dagli studi su Eleonora Duse che ancora mi accompagnano, mutando come me nel tempo, sperimentando la magia ipnotica dello studio delle lettere, dei registri dei conti, dei contratti, delle testimonianze dei contemporanei e delle ricerche degli studiosi. Avevo tenuto tra le mani i copioni con i segni che raccontano la natura poliedrica di un’artista che la vulgata definisce soltanto “attrice”. Conoscevo le sorprese che riserva il tentativo di cogliere le trasformazioni, spesso solo apparenti, di quegli strumenti del mestiere che si trasmettono di generazione in generazione. Ho quindi adottato il mio “non sistema” di costruzione, rinunciando qui soltanto alla musica dal vivo. Trasformata in caotica biblioteca confronto le mie intuizioni con studi scientifici e biografie r omanzate, documenti e chiacchiere, dialogo con personaggi, autori, traduttori, studiosi, in un’anarchica miscellanea di materiali. In questo caso poi, grazie alla coincidenza di molti ruoli nei protagonisti Isabella e Francesco, grazie alle ricerche di grande qualità su di loro e alle testimonianze, grazie alle loro scritture, alle lettere, alle Rime, ai Sonetti, alla Mirtilla di Isabella, alla raccolta delle Bravure di Capitan Spavento di Valle Inferna, ma grazie anche ai loro silenzi, avevamo di fronte un materiale drammaturgico in corto circuito, dove a lampi luminosi seguiva il buio. Erano necessarie spietate selezioni e nuove scritture che dessero corpo teatrale a Isabella, a Francesco, ai personaggi inventati della Maschera della Peste e dello Studioso, a noi stessi in cerca dei comici dell’Arte.
Troppo innamorata dai particolari delle storie per poter fare scelte definitive a tavolino, scelsi la via della scena: improvvisare a partire dai testi, annotare, modificare, correggere, senza bloccare il processo. Scrivere all’improvviso in scena è una pratica assai rischiosa e basta poco per deragliare, ma se riesce, il dispiego di energia psicofisica che necessita viene registrato nella sua eccezionalità anche da chi non ne sa nulla. Questa scelta ha fatto sì che il testo della Pazzia di Isabella che è stato pubblicato grazie all’attenzione di Gerardo, non corrisponda, almeno per quanto riguarda i miei testi, a quanto accade in scena, ma a una sorta di canovaccio e vivo repertorio di materiali. Anche nella creazione dello spazio, delle scene e dei costumi, abbiamo lasciato che i materiali degli spettacoli galleggiassero privi di gravità incontrandosi in inedite immagini. Così le quinte armate de Le relazioni pericolose, tornate morbida stoffa rossa, disegnano tre piccoli teatri, uno centrale in fondo, destinato alle apparizioni e alle fughe, e due avanti, per duelli e narrazioni più concrete. Al centro una pedana che viene dal Teatro di Leo evoca un palchetto da Commedia. La gonna arriva da Le smanie della villeggiatura (realizzato con Diablogues di Enzo Vetrano e Stefano Randisi), la veste da Galla Placidia, il bustino da Le relazioni pericolose, il cappotto peloso del Capitano pure, la vestaglia dello Studioso fu di un Danceny e si fondono in altre fogge con l’intuizione veloce ed efficace che offre l’imminenza del debutto. Le maschere sono di Stefano Perocco, che fonde i segni della Commedia con i tratti degli attori e gli echi di tradizioni da tutto il mondo. Fu lui a realizzare due delle maschere per me più importanti, le due facce della Morte seduttrice di Leo-Pantalone, usate per la prima volta nel Ritorno di Scaramouche: volevo maschere inedite che accompagnassero me donna in un mondo di maschere per uomini. Così modificammo la Bautta e la maschera del Dottore della Peste, il cui lungo naso proteggeva i medici dal contagio e che diventa qui Maschera della Peste. Tra le poche notizie tramandate sull’agire in scena di Isabella, ho accolto con particolare interesse quella che allude alle sue interpretazioni di ruoli maschili, che mi permette di dire «finalmente almeno nel teatro, non c’è diferenza tra i omeni e done» e che mi spinge ad usare per lei proprio quelle maschere, sia quando si avventura nei suoi rabberciati ragguagli storici, sia quando si impossessa di racconti recuperati dal grande Vito Pandolfi e selvaggiamente rielaborati da me al riguardo di ridiculose recite di fronte ai Gonzaga, pericolosi amanti del teatro e delle attrici, nei quali la compagnia rischia la forca per aver trasformato tutti i personaggi in gobbi come Guglielmo il Duca; o quando si prepara a varcare le soglie tra mondo dei vivi e dei morti. L’accento si sporca di dialetto, abbandona il partenopeo di Leo e si mescola al mio romagnolo d’origine, allo spagnolo e al francese e al veneto di Isabella che in questa occasione ho ritrovato in me, frutto di una residenza infantile rimasta scritta nel corpo.
Una delle prime immagini dello spettacolo venne dalla presentazione alle Bravure di Capitan Spavento che ci mostra Francesco mentre si ritira dalla professione, svuotata di senso dalla morte di Isabella e dallo svanire della turbolenta scintilla creativa di lei e raccoglie i testi del suo Capitano che, come faccio dire proprio alla Maschera della Peste, ha il coraggio di affrontare in duello persino la Morte, proprio come fa lui stesso ora, nel dedicarsi alla redazione dei loro scritti da affidare al ricordo. I due personaggi del “dramma” sono separati dal confine tra vita e morte. Francesco cerca Isabella nelle carte, la insegue nella prefazione alle Bravure nei panni del pastore Corinto nonostante lei lo inviti, canticchiando in francese con affettuosa derisione, a non soffrire più, a conservare di lei “la parte più viva” e a vivere “da forte”, la evoca perfino quando è nei panni del terribile Capitan Spavento, tra un lazzo, un invito lascivo al pubblico e una battaglia. Lei afferma che il dolore è un passaggio necessario all’amore, ma cade nella trappola del rimpianto e ritorna, brontolando per la fatica di dover riunire atomi e pensieri di un’identità ormai dispersa e infonderli in un corpo, il mio, che non le corrisponde e dovendo usare una voce, la mia, che non riconosce. Cerca il teatro che la vide grande e non lo trova. Nulla resta. Dissolvo così ogni possibilità di equivoco sul fatto che io voglia “incarnare” talenti così straordinari: denuncio la mia figura di strumento che si offre al racconto di grandi artiste innovatrici e impazienti.
Isabella e Francesco si cercano, si sfiorano, ma non si incontrano se non per attimi, nello spazio di un ricordo, per la rivendicazione della loro libertà rispetto alle Corti, con le mani unite, sul fondo della scena, fermati dopo un tango in una beffarda fotografia dove si scambiano per un attimo i ruoli, lui a volto nudo, lei in maschera o nel tentativo di evocare la celebre azione detta la Pazzia di Isabella, in un estremo tentativo che forzi, con l’atto della creazione, la barriera che li divide. Si incontrano spesso invece Francesco e la Maschera della Peste, Isabella e lo Studioso, tutti in cerca della verità nonostante gli sgambetti della storia e della memoria. È evidente oggi come l’andamento drammaturgico rispecchiasse e utilizzasse le difficoltà pratiche delle prove e le nostre differenze per delinearsi in una struttura duttile e proteiforme, che ci facesse sembrare più di due. Per dare corpo a tutti i peggiori fantasmi dei teatranti, dalla paura del giudizio ai dubbi sulla qualità delle opere e del talento, fino al conflitto con l’ambiente culturale, rispetto al quale sono spesso in ritardo o in anticipo, troppo esposti o troppo schivi, ecco che emerge la figura dello Studioso, esilarante maschera di pennuto interpretata da Marco, che dal leggio affascina, innamora del teatro, inventa, giudica, dimentica, simpatico e crudele, intelligente e distratto. Avremmo voluto creare un duetto, ma il corso delle prove ha decretato che io assumessi invece il ruolo della maschera ignorante, Maschera della Peste, con stupidi e arroganti tratti da pollaio, diffidente nei confronti di chi studia il teatro che lei ha imparato fin da piccola ma affascinata dalle notizie declamate dallo studioso al punto che, di nascosto, tenta essa stessa di rabberciare una lacunosa e tendenziosa lezione. In seguito, Isabella, dopo aver raccontato di un trionfo della compagnia approfittando di tutti i giochi che la maschera consente, fonde, a volto nudo, l’immagine di quel momento – premonizione o ricordo? – con quello della morte a Lione e dopo aver salutato i figli e le figlie, nessuna delle quali, la lascio dire, fu libera come lei, si siede sul bordo del palchetto come sull’orlo della vita e ascolta, curiosa, poi compiaciuta, poi offesa, lo Studioso che di lei parla. Nonostante la levità del passaggio e la sua ovvia nota grottesca, sento in quell’attimo due epoche, due linguaggi, due mentalità a confronto nell’impervio e amoroso tentativo di incontrarsi. Poi, inforcata la maschera stupida, cerco sul leggio dello Studioso, qualche documento che tratti del muoversi di allora ma, tornata Isabella, devo confessare, indicando il palchetto, che “non ci ho pensato”. Scivolo poi in una sintesi della ricca presentazione all’edizione delle Lettere che se anche fosse stata scritta da Francesco a nome suo, non esagera in agiografia e non perde di valore teatrale nel disegnare un ritratto di Isabella “cittadina del mondo”, dotata da Dio di un desiderio di sapere e di eternità che la distoglie dalle abituali occupazioni femminili e che, nonostante i figli, i viaggi e le fatiche della scena, la spinge a scrivere, studiare, pubblicare. Ma eccola diventare per me un Cyrano in vesti di comica quando rifiuta di “accomodarsi” in corte e scivola in un “grazie no” e in una danza sul palchetto dove ritrova, insieme alla libertà, Francesco. Gerardo mi suggerì, da drammaturgo, una visione inedita del celebre cavallo di battaglia di Isabella Andreini, la Pazzia per Amore, messo in scena da quell’insolita Innamorata, da lei creata con il suo stesso nome, che, come oso dire in scena, difendeva la sua dignità di donna, scrittrice, attrice e moglie contro la convenzione della teatrante prostituta ma anche, secondo un mio arbitrio, dava voce, lei privilegiata, al silenzio di tante donne da lei trasformato in canto, in un terremoto di voci soffocate di schiave di uomini “che sarebbe stato meglio non fossero mai nati” e di destini obbligati. Pur evitando ogni allusione ai recenti movimenti femministi, ho intravisto in Isabella un femmineo Prospero che, in nome dei sentimenti d’amore che ci rendono tutti stupiti e uguali, ferita dal tradimento e in cerca dell’amante perduto, osa entrare nelle terre della follia dove la prima cosa che si perde è l’identità per la quale tanto ha lavorato. Pazza d’amore ma anche di teatro, attraversa, esplora e abbandona a una a una tutte le sue abilità, dal parlato, al canto, alla danza, alle molte lingue e registri, trasmigra da un sesso ad un altro per arrivare a evocare quel desiderio che non è di un corpo, anche se attraverso il suo stesso corpo passa, ma di uno spirituale altrove dove perdersi in un amore più grande di quello terreno e dove il parlare piano e semplice diventa azione che trasforma, allora e ora.
La scena finale e quella iniziale quasi coincidono: Marco con la maschera da Capitano di Francesco e io con la maschera dal lungo naso accogliamo i molti attori e autori di quel mondo oscuro dei quali Gerardo ci passò una preziosa lista di nomi che ne tramandano carattere e ruolo: le nostre voci li scandiscono in una registrazione sporca, che scegliemmo tra le altre per alcuni incespichi dell’emozione che creano l’illusione della sorpresa di una visita inattesa di queste ombre del passato. Immersi in una luce grigio azzurra che stempera i confini, li salutiamo, inchinandoci a un pubblico invisibile, tornando a ripetere passi dimenticati, saltando sulla pedana che fu il nostro teatro. In quel momento sono Elena, ascolto in me quel che risuona della grande Andreini, sono una maschera, sono io stessa ombra. Nonostante le parole di Isabella: «che dopo di noi nulla resta, se no se ‘n quanto ne l’eterne carte/ lasciamo i nomi in bei vestigi sparsi», evochiamo un’arte e un sapere che continuano a vivere anche se catturati soltanto a tratti dalla carta, e accogliamo l’abbraccio sotterraneo di tutto ciò che viene tramandato a voce. Quando si incrina la registrazione, il tempo si frattura e Marco-Francesco con la sua maschera di Capitano viene trascinato verso la vita reale del teatrino della quinta in proscenio mentre Isabella scompare nel buio della morte. Si incrociano le musiche di Benedetto Marcello e di Arvo Pärt, disegnando un’armonica antitesi tra i due, tra Marco e me, tra le nostre differenze. Comincia così il nostro racconto sugli Andreini che, con la circolarità riservata agli eventi sospesi ricorda nel finale il suo inizio: Francesco mi invita a ricordare ancora la Pazzia, a essere ancora Isabella e io, Elena, Maschera, Isabella, ancora una volta cedo, pur sapendo di non potere, di non sapere. Incomincio il mio racconto e sono quasi sul punto di provare a recitare quando l’anima di Isabella si rifiuta, rinnega lo strumento che io sono e portando con sé Francesco, del quale rimane soltanto il corpo abbandonato, svanisce: ‘non mi forzare a ritornar a ripeter quelle frasi, a rifare i gesti. Questa voce non corrisponde, non la riconosco. La Pazzia è andata, è stata. Noi qua siam nuvole di nulla, ectoplasmi e la mania di restar per sempre appare una follia. Quella sì, pazzia. Qua son uomo, donna, niente e se ti abitui, se ti abbandoni, ecco all’improvviso ci son tutti, quelli conosciuti e altri che non so se furono o saranno. E che festa, che risate, che canti. Li vedi? Li senti?
[pubblicato in Il teatro e il suo dopo, Editoria & Spettacolo, Napoli 2014]
C’è poi un molteplice filo che unisce questo agli altri miei progetti: la visione del teatro come luogo del colloquio tra vivi e morti e tra autori e attori, dove trovano spazio scritture originali intorno a persone realmente vissute che mi hanno guidato con il loro mito luminoso e ispirato storie e invenzioni e dove ho elaborato una modalità di lavoro che ho scoperto anch’essa simile a ciò che si immagina fosse la commedia all’improvviso. Le scritture sceniche e le elaborazioni dei testi partono dalla raccolta di materiali molto vari che alimentano improvvisazioni scritte, riprese e corrette, mescolano i registri comici e tragici e si intrecciano a musica, canto, movimento fino alla creazione di personaggi originali in maschera e non, mentre l’apparato di scene, costumi e luci slitta da spettacolo a spettacolo, creando nuovi paesaggi attraverso variabili combinatorie. Macbeth, Hedda Gabler, Antigone, Bambini, Autobiografie di ignoti, Juana de la Cruz, Non sentire il male - dedicato a Eleonora Duse, La pazzia di Isabella, fino all’ultimo In canto e in veglia, sono un unico flusso dai molti riflessi che si adatta alle occasioni e agli spazi, sia che operi da sola o coadiuvata dal lavoro di preziosi compagni, da Marco a Maurizio Viani, a Raffaele Bassetti, al nucleo di attori e tecnici della compagnia. La scelta di centrare lo sguardo sul romanzo delle vite vuole forse essere uno sgambetto alla morte e certo rimanda alla scelta di una professione che, nell’esprimere la sua massima vitalità, si disfa. Tutti contrasti che confluiscono nel cuore di ispirazione de La pazzia di Isabella, insieme al fascino che provo per gli artisti che, a partire dal mio maestro Leo de Berardinis, fondono malattia e terapia, difendono un’indipendenza nel loro agire che dialoga con il pubblico e il potere, affastellano mestieri, creano poetiche, tracciano linee teoriche, ma trascurano, quasi per scaramanzia, la cura dei documenti che ne possano tramandare la storia. « [...] scomparvero misteriosamente tutti i suoi manoscritti e le sue lettere [...] tranne due comuni fogli di carta che recano la firma di Molière per la riscossione di denaro a favore della sua compagnia», scrive Michail Bulgakov nella sua innamorata biografia [Vita del signor de Molière, 1936]. Isabella e Francesco, attori, autori e capocomici della Compagnia dei Gelosi, vogliono dare autonomia e prestigio alla professione attraverso la consapevole creazione di compagnie, relazioni, maschere, personaggi e canovacci, sottraendo la pratica del teatro ai nobili e ai letterati, proiettandosi, nel breve spazio di un’esistenza, dalle piazze alle Corti e alle Accademie.
Eppure il loro desiderio di eternità convive con la mancanza di una precisa redazione dei canovacci usati in scena o di descrizioni delle azioni, dello spazio, della maschera, «della quale non parlano mai e che troviamo raffigurata portata sotto braccio s enza alcuna enfasi come uno strumento di lavoro qualsiasi», come recito nello spettacolo. È evidente anche il dissidio tra la necessità di intrecciare relazioni con il potere per ottenere il riconoscimento dell’esistenza e la volontà di conservare l’indipendenza dai soffocanti incarichi di corte e quello tra una vertiginosa scalata sociale scandita da inviti di re e onorificenze inusuali – come l’accoglienza di Isabella, unica donna, nell’Accademia letteraria degli Intenti di Pavia – e le aspre critiche degli Ugonotti che condannano la commedia all’improvviso come espressione di un mondo capovolto dal demonio. In scena sfavillano anche i contrasti tra l’uso di elementi colti e popolari, tra l’evocazione di figure della tradizione come il Capitano o l’Innamorata e la loro evoluzione in personaggi articolati che, prendendo il nome dai creatori, ne rivoluzionano la natura, mentre la pratica della captatio nelle dediche e presentazioni convive con quella, comica e dissacratoria, della presa in giro dello stesso pubblico e dei committenti. In confronto all’attuale rigidità nella definizione dei generi, la compresenza di stili e ispirazioni è ricca e mobile. Sullo sfondo resta sempre il confronto tra ciò che la scrittura consegna al futuro e il teatro all’improvviso che svapora.
Avevo già portato in scena storie di attori-autori, a partire dagli studi su Eleonora Duse che ancora mi accompagnano, mutando come me nel tempo, sperimentando la magia ipnotica dello studio delle lettere, dei registri dei conti, dei contratti, delle testimonianze dei contemporanei e delle ricerche degli studiosi. Avevo tenuto tra le mani i copioni con i segni che raccontano la natura poliedrica di un’artista che la vulgata definisce soltanto “attrice”. Conoscevo le sorprese che riserva il tentativo di cogliere le trasformazioni, spesso solo apparenti, di quegli strumenti del mestiere che si trasmettono di generazione in generazione. Ho quindi adottato il mio “non sistema” di costruzione, rinunciando qui soltanto alla musica dal vivo. Trasformata in caotica biblioteca confronto le mie intuizioni con studi scientifici e biografie r omanzate, documenti e chiacchiere, dialogo con personaggi, autori, traduttori, studiosi, in un’anarchica miscellanea di materiali. In questo caso poi, grazie alla coincidenza di molti ruoli nei protagonisti Isabella e Francesco, grazie alle ricerche di grande qualità su di loro e alle testimonianze, grazie alle loro scritture, alle lettere, alle Rime, ai Sonetti, alla Mirtilla di Isabella, alla raccolta delle Bravure di Capitan Spavento di Valle Inferna, ma grazie anche ai loro silenzi, avevamo di fronte un materiale drammaturgico in corto circuito, dove a lampi luminosi seguiva il buio. Erano necessarie spietate selezioni e nuove scritture che dessero corpo teatrale a Isabella, a Francesco, ai personaggi inventati della Maschera della Peste e dello Studioso, a noi stessi in cerca dei comici dell’Arte.
Troppo innamorata dai particolari delle storie per poter fare scelte definitive a tavolino, scelsi la via della scena: improvvisare a partire dai testi, annotare, modificare, correggere, senza bloccare il processo. Scrivere all’improvviso in scena è una pratica assai rischiosa e basta poco per deragliare, ma se riesce, il dispiego di energia psicofisica che necessita viene registrato nella sua eccezionalità anche da chi non ne sa nulla. Questa scelta ha fatto sì che il testo della Pazzia di Isabella che è stato pubblicato grazie all’attenzione di Gerardo, non corrisponda, almeno per quanto riguarda i miei testi, a quanto accade in scena, ma a una sorta di canovaccio e vivo repertorio di materiali. Anche nella creazione dello spazio, delle scene e dei costumi, abbiamo lasciato che i materiali degli spettacoli galleggiassero privi di gravità incontrandosi in inedite immagini. Così le quinte armate de Le relazioni pericolose, tornate morbida stoffa rossa, disegnano tre piccoli teatri, uno centrale in fondo, destinato alle apparizioni e alle fughe, e due avanti, per duelli e narrazioni più concrete. Al centro una pedana che viene dal Teatro di Leo evoca un palchetto da Commedia. La gonna arriva da Le smanie della villeggiatura (realizzato con Diablogues di Enzo Vetrano e Stefano Randisi), la veste da Galla Placidia, il bustino da Le relazioni pericolose, il cappotto peloso del Capitano pure, la vestaglia dello Studioso fu di un Danceny e si fondono in altre fogge con l’intuizione veloce ed efficace che offre l’imminenza del debutto. Le maschere sono di Stefano Perocco, che fonde i segni della Commedia con i tratti degli attori e gli echi di tradizioni da tutto il mondo. Fu lui a realizzare due delle maschere per me più importanti, le due facce della Morte seduttrice di Leo-Pantalone, usate per la prima volta nel Ritorno di Scaramouche: volevo maschere inedite che accompagnassero me donna in un mondo di maschere per uomini. Così modificammo la Bautta e la maschera del Dottore della Peste, il cui lungo naso proteggeva i medici dal contagio e che diventa qui Maschera della Peste. Tra le poche notizie tramandate sull’agire in scena di Isabella, ho accolto con particolare interesse quella che allude alle sue interpretazioni di ruoli maschili, che mi permette di dire «finalmente almeno nel teatro, non c’è diferenza tra i omeni e done» e che mi spinge ad usare per lei proprio quelle maschere, sia quando si avventura nei suoi rabberciati ragguagli storici, sia quando si impossessa di racconti recuperati dal grande Vito Pandolfi e selvaggiamente rielaborati da me al riguardo di ridiculose recite di fronte ai Gonzaga, pericolosi amanti del teatro e delle attrici, nei quali la compagnia rischia la forca per aver trasformato tutti i personaggi in gobbi come Guglielmo il Duca; o quando si prepara a varcare le soglie tra mondo dei vivi e dei morti. L’accento si sporca di dialetto, abbandona il partenopeo di Leo e si mescola al mio romagnolo d’origine, allo spagnolo e al francese e al veneto di Isabella che in questa occasione ho ritrovato in me, frutto di una residenza infantile rimasta scritta nel corpo.
Una delle prime immagini dello spettacolo venne dalla presentazione alle Bravure di Capitan Spavento che ci mostra Francesco mentre si ritira dalla professione, svuotata di senso dalla morte di Isabella e dallo svanire della turbolenta scintilla creativa di lei e raccoglie i testi del suo Capitano che, come faccio dire proprio alla Maschera della Peste, ha il coraggio di affrontare in duello persino la Morte, proprio come fa lui stesso ora, nel dedicarsi alla redazione dei loro scritti da affidare al ricordo. I due personaggi del “dramma” sono separati dal confine tra vita e morte. Francesco cerca Isabella nelle carte, la insegue nella prefazione alle Bravure nei panni del pastore Corinto nonostante lei lo inviti, canticchiando in francese con affettuosa derisione, a non soffrire più, a conservare di lei “la parte più viva” e a vivere “da forte”, la evoca perfino quando è nei panni del terribile Capitan Spavento, tra un lazzo, un invito lascivo al pubblico e una battaglia. Lei afferma che il dolore è un passaggio necessario all’amore, ma cade nella trappola del rimpianto e ritorna, brontolando per la fatica di dover riunire atomi e pensieri di un’identità ormai dispersa e infonderli in un corpo, il mio, che non le corrisponde e dovendo usare una voce, la mia, che non riconosce. Cerca il teatro che la vide grande e non lo trova. Nulla resta. Dissolvo così ogni possibilità di equivoco sul fatto che io voglia “incarnare” talenti così straordinari: denuncio la mia figura di strumento che si offre al racconto di grandi artiste innovatrici e impazienti.
Isabella e Francesco si cercano, si sfiorano, ma non si incontrano se non per attimi, nello spazio di un ricordo, per la rivendicazione della loro libertà rispetto alle Corti, con le mani unite, sul fondo della scena, fermati dopo un tango in una beffarda fotografia dove si scambiano per un attimo i ruoli, lui a volto nudo, lei in maschera o nel tentativo di evocare la celebre azione detta la Pazzia di Isabella, in un estremo tentativo che forzi, con l’atto della creazione, la barriera che li divide. Si incontrano spesso invece Francesco e la Maschera della Peste, Isabella e lo Studioso, tutti in cerca della verità nonostante gli sgambetti della storia e della memoria. È evidente oggi come l’andamento drammaturgico rispecchiasse e utilizzasse le difficoltà pratiche delle prove e le nostre differenze per delinearsi in una struttura duttile e proteiforme, che ci facesse sembrare più di due. Per dare corpo a tutti i peggiori fantasmi dei teatranti, dalla paura del giudizio ai dubbi sulla qualità delle opere e del talento, fino al conflitto con l’ambiente culturale, rispetto al quale sono spesso in ritardo o in anticipo, troppo esposti o troppo schivi, ecco che emerge la figura dello Studioso, esilarante maschera di pennuto interpretata da Marco, che dal leggio affascina, innamora del teatro, inventa, giudica, dimentica, simpatico e crudele, intelligente e distratto. Avremmo voluto creare un duetto, ma il corso delle prove ha decretato che io assumessi invece il ruolo della maschera ignorante, Maschera della Peste, con stupidi e arroganti tratti da pollaio, diffidente nei confronti di chi studia il teatro che lei ha imparato fin da piccola ma affascinata dalle notizie declamate dallo studioso al punto che, di nascosto, tenta essa stessa di rabberciare una lacunosa e tendenziosa lezione. In seguito, Isabella, dopo aver raccontato di un trionfo della compagnia approfittando di tutti i giochi che la maschera consente, fonde, a volto nudo, l’immagine di quel momento – premonizione o ricordo? – con quello della morte a Lione e dopo aver salutato i figli e le figlie, nessuna delle quali, la lascio dire, fu libera come lei, si siede sul bordo del palchetto come sull’orlo della vita e ascolta, curiosa, poi compiaciuta, poi offesa, lo Studioso che di lei parla. Nonostante la levità del passaggio e la sua ovvia nota grottesca, sento in quell’attimo due epoche, due linguaggi, due mentalità a confronto nell’impervio e amoroso tentativo di incontrarsi. Poi, inforcata la maschera stupida, cerco sul leggio dello Studioso, qualche documento che tratti del muoversi di allora ma, tornata Isabella, devo confessare, indicando il palchetto, che “non ci ho pensato”. Scivolo poi in una sintesi della ricca presentazione all’edizione delle Lettere che se anche fosse stata scritta da Francesco a nome suo, non esagera in agiografia e non perde di valore teatrale nel disegnare un ritratto di Isabella “cittadina del mondo”, dotata da Dio di un desiderio di sapere e di eternità che la distoglie dalle abituali occupazioni femminili e che, nonostante i figli, i viaggi e le fatiche della scena, la spinge a scrivere, studiare, pubblicare. Ma eccola diventare per me un Cyrano in vesti di comica quando rifiuta di “accomodarsi” in corte e scivola in un “grazie no” e in una danza sul palchetto dove ritrova, insieme alla libertà, Francesco. Gerardo mi suggerì, da drammaturgo, una visione inedita del celebre cavallo di battaglia di Isabella Andreini, la Pazzia per Amore, messo in scena da quell’insolita Innamorata, da lei creata con il suo stesso nome, che, come oso dire in scena, difendeva la sua dignità di donna, scrittrice, attrice e moglie contro la convenzione della teatrante prostituta ma anche, secondo un mio arbitrio, dava voce, lei privilegiata, al silenzio di tante donne da lei trasformato in canto, in un terremoto di voci soffocate di schiave di uomini “che sarebbe stato meglio non fossero mai nati” e di destini obbligati. Pur evitando ogni allusione ai recenti movimenti femministi, ho intravisto in Isabella un femmineo Prospero che, in nome dei sentimenti d’amore che ci rendono tutti stupiti e uguali, ferita dal tradimento e in cerca dell’amante perduto, osa entrare nelle terre della follia dove la prima cosa che si perde è l’identità per la quale tanto ha lavorato. Pazza d’amore ma anche di teatro, attraversa, esplora e abbandona a una a una tutte le sue abilità, dal parlato, al canto, alla danza, alle molte lingue e registri, trasmigra da un sesso ad un altro per arrivare a evocare quel desiderio che non è di un corpo, anche se attraverso il suo stesso corpo passa, ma di uno spirituale altrove dove perdersi in un amore più grande di quello terreno e dove il parlare piano e semplice diventa azione che trasforma, allora e ora.
La scena finale e quella iniziale quasi coincidono: Marco con la maschera da Capitano di Francesco e io con la maschera dal lungo naso accogliamo i molti attori e autori di quel mondo oscuro dei quali Gerardo ci passò una preziosa lista di nomi che ne tramandano carattere e ruolo: le nostre voci li scandiscono in una registrazione sporca, che scegliemmo tra le altre per alcuni incespichi dell’emozione che creano l’illusione della sorpresa di una visita inattesa di queste ombre del passato. Immersi in una luce grigio azzurra che stempera i confini, li salutiamo, inchinandoci a un pubblico invisibile, tornando a ripetere passi dimenticati, saltando sulla pedana che fu il nostro teatro. In quel momento sono Elena, ascolto in me quel che risuona della grande Andreini, sono una maschera, sono io stessa ombra. Nonostante le parole di Isabella: «che dopo di noi nulla resta, se no se ‘n quanto ne l’eterne carte/ lasciamo i nomi in bei vestigi sparsi», evochiamo un’arte e un sapere che continuano a vivere anche se catturati soltanto a tratti dalla carta, e accogliamo l’abbraccio sotterraneo di tutto ciò che viene tramandato a voce. Quando si incrina la registrazione, il tempo si frattura e Marco-Francesco con la sua maschera di Capitano viene trascinato verso la vita reale del teatrino della quinta in proscenio mentre Isabella scompare nel buio della morte. Si incrociano le musiche di Benedetto Marcello e di Arvo Pärt, disegnando un’armonica antitesi tra i due, tra Marco e me, tra le nostre differenze. Comincia così il nostro racconto sugli Andreini che, con la circolarità riservata agli eventi sospesi ricorda nel finale il suo inizio: Francesco mi invita a ricordare ancora la Pazzia, a essere ancora Isabella e io, Elena, Maschera, Isabella, ancora una volta cedo, pur sapendo di non potere, di non sapere. Incomincio il mio racconto e sono quasi sul punto di provare a recitare quando l’anima di Isabella si rifiuta, rinnega lo strumento che io sono e portando con sé Francesco, del quale rimane soltanto il corpo abbandonato, svanisce: ‘non mi forzare a ritornar a ripeter quelle frasi, a rifare i gesti. Questa voce non corrisponde, non la riconosco. La Pazzia è andata, è stata. Noi qua siam nuvole di nulla, ectoplasmi e la mania di restar per sempre appare una follia. Quella sì, pazzia. Qua son uomo, donna, niente e se ti abitui, se ti abbandoni, ecco all’improvviso ci son tutti, quelli conosciuti e altri che non so se furono o saranno. E che festa, che risate, che canti. Li vedi? Li senti?
[pubblicato in Il teatro e il suo dopo, Editoria & Spettacolo, Napoli 2014]