La portentosa forza della lezione di Leo - derivata da un’intensa
compenetrazione tra teoria, pratica, e riflessione politica e civile -
arriva intatta e inquieta fino al presente, fino a questo momento.
Leo, come la Duse, dice: ‘le convenzioni, le celebrazioni, il successo,
le tradizioni non significano niente’ e ‘l’arte non si insegna’.
Suonano strane queste parole? Ma no.
Entrambi hanno profondamente ammirato e studiato la tradizione e cercato
di trasmettere tutto quanto sapevano ai loro attori, incoraggiandone
qualità e inclinazioni.
Entrambi quindi, hanno fatto dell’arte del paradosso uno strumento per
non adagiarsi mai, per continuare a cercare e per affinare la pratica
della trasformazione, ascoltando i tempi e sè stessi. Una perfetta arte
di formazione.
Tale arte del paradosso, affascinante seppur disorientante - e forse
proprio per questo preziosa - è stata supportata in massimo grado
dall’uso della maschera.
Proprio la proposta di lavorare con la maschera fu, per noi del Teatro
di Leo, una formidabile occasione di cambiamento, rivelazione e
svelamento.
Già da diversi anni lavoravamo insieme, guidati da Leo in un processo di
consapevolezza attoriale e politica verso la libertà creativa, passando
da Shakespeare alle scritture originali, dai laboratori con altri
attori alla costruzione dello Spazio della Memoria. Fatalmente ognuno di
noi aveva acquisito - volente o nolente - un ‘identità artistica e una
‘nota’ creativa piuttosto riconoscibili, dentro e fuori dalla compagnia.
In Leo scattarono evidenti campanelli d’allarme. Forse lui stesso
sentiva che ci stavamo abituando a suonare insieme senza interrogarci su
altre vie e possibilità? Forse sentiva il rischio della ripetizione
vuota di un ensamble molto affiatato e partecipe? Si interrogava più
profondamente sul ruolo del teatro nel mondo e per il mondo? Vedeva
delinearsi temibili meccanismi di potere, per quanto generati da stima e
affetto? A me piace pensare che fosse così, appellandomi alla mia
memoria e agli scritti di Leo.
Ci chiese quindi, per il ‘Ritorno di Scaramouche’, di attingere a
risorse nuove e mai usate, di cercarle e affinarle. Allo stesso tempo lo
chiese a sè stesso. Ci apprestavamo a ribaltare i confortanti assetti
delle nostre relazioni e a trovare un nuovo luogo per la compagnia, nel
mondo del teatro e fuori, come già stava avvenendo con la fuoriuscita
dal teatro Testoni e la nascita del Teatro di Leo.
Tornare a pensare alla Commedia dell’Arte, significava anche
approfondire e rivedere in tutti i sensi il percorso già intrapreso:
quello era un tempo nel quale era necessario che ogni attore diventasse
autore, riappropriandosi di ogni mezzo del mestiere, dal testo alla
creazione del personaggio, dall’allenamento fisico alla pratica
dell’improvvisazione.
Era un tempo nel quale Leo sosteneva che un attore vero dovrebbe essere
in grado di recitare Shakespeare alla luce del semaforo, senza
protezione e con grande volontà di mescolarsi alla vita.
Cosa di più vicino a questi pensieri della Commedia dell’Arte, con il
suo mistero e la sua esplosiva miscela di sublime cialtroneria e poesia
concreta?
E ci mettemmo a lavorare.
Stefano Perocco di Meduna ci portò le belle e duttili maschere create
dalle sue mani sempre curiose e intelligenti, Eugenio Allegri ci
trasportò per cinque giorni nel mondo della Commedia dell’Arte tradotto
per la contemporanità dal Tag.
A questo punto Leo, sempre così presente e artefice, ci lasciò soli, con
il compito di scegliere un personaggio e improvvisarne parole e gesti.
Ricordo bene come il piccolo Spazio della Memoria fosse idealmente
suddiviso in ‘angoli’ per ciascuno di noi. Angoli di crisi, scoperte,
scongiuri.
A conclusione di ogni giornata di prove, mostravamo i risultati della
nostra ricerca, dapprima zoppicanti e incerti e poi, sotto il suo
sguardo rigoroso, sempre più sicuri.
Da maestro vero, Leo cercava un equilibrio nella guida che rendesse
sempre più forti e autonomi gli attori, osservando con estrema
attenzione e formulando indicazioni utili per il lavoro del giorno dopo.
Per una persona timida e amante del dubbio come me, la maschera fu un’amica nemica.
Da un lato mi sussurrava protezione, dall’altro mi costringeva ad una
pratica di estremo rigore dettata dalla mia stessa sensibilità. Non
potevo ribellarmi a niente, nè lamentarmi con nessuno: come da uno
specchio appannato che piano piano torna limpido, vedevo dipanarsi le
indicazioni del cammino da fare e alla fine, attraverso la maschera e i
movimenti che ne derivavano, eccomi rivelata come mai prima, e in
diverse età, dai tre ai centoventi anni, e proprio da quello specchio.
Altro che protezione.
Quel modo di usare la maschera mi costringeva a una spietata rivelazione
dei miei pregi e soprattutto limiti. Dovevo imparare di nuovo ad usare
corpo, voce e metodo di creazione.
Il rapporto con la maschera era di assoluta libertà: prendevamo dalla
tradizione quello che poteva esserci utile, ma senza alcun limite
nell’invenzione.
Antonio Alveario indossò, pur senza l’oggetto, la maschera di tutti i
vizi del privilegiato con pretese d’ arte, Pupetto Castellaneta diventò
una magnifica donna, Marco Manchisi cominciò il suo percorso nella
commedia con Pulci, parente distratto di Pulcinella, Francesca Mazza
trasformò la Strega in creatrice della vita, Gino Paccagnella si ritrovò
come strumento folle un paio di occhialoni spessi, Marco Sgrosso
inventò un feroce Arlecchino napoletano di nome Vongola.
Maurizio Viani, con un uso della luce che coniugava sapienza, amore e
anarchia trasformò le intenzioni in visioni. Così le braccia sembravano
ali, i corpi disegni, i salti acrobazie. Tutta questa magìa viveva del
movimento e nell’azione: per questo non se ne trova traccia nei
documenti.
Leo rivelò, attraverso Pantalone, tutte le sue paure e le sue angosce,
trasformandole in un formidabile punto di forza e di indagine, per la
vita e per il teatro.
Io scelsi d’istinto due maschere mai usate per la Commedia dell’arte,
quasi fosse un’ inconsapevole polemica nei confronti del passato, quando
le donne non avevano maschere, anzi, servivano proprio come esche per
il pubblico, meglio spogliate che ‘velate’. La scelta del ‘personaggio’ -
mai Leo avrebbe detto questa parola! - e delle maschere fu unica.
Volevo interpretare la Morte, mia ossessione da tempo, studiata, temuta,
blandita, e le sue maschere per me erano la Bautta - simbolo del mondo
capovolto carnevalesco, annullamento d’identità esemplare della licenza e
ambivalenza sessuale e del destino che - a’ Livella! - ci fa finalmente
tutti uguali e la maschera del Dottore della Peste, che evoca insieme
l’incubo dell’epidemia e la possibilità di irriderne la paura vivendone
sia il grottesco, sia la vitale e disperata reazione, tutta fatta di
piacere e ‘carpe diem’.
Potevo anche pormi la questione del potere, rivelando nascosti pensieri
della mia Morte, comico scheletrino che, temuta da tutti e da tutti
blandita, piange la sua estrema solitudine.
Accolsi la richiesta di Leo, buttandomi completamente in questa ricerca,
inventando un allenamento fisico adeguato, spingendomi oltre la mia
paura, verso tutto ciò che più temevo, dall’improvvisazione alla
comicità spietata.
La relazione con gli altri si rivelò una continua scoperta: i compagni
abituali diventavano altri, con la maschera. Si annullavano convenzioni,
fasulli rispetti, protezioni. Risultava evidente come la generosità
sulla scena venisse cento e mille volte ripagata da un patrimonio di
invenzioni che, partite dai singoli, si moltiplicavano in aria perchè
tornassero di tutti, di chi per primo le acchiappava.
Su un piccolo palchetto da Commedia, riuscivamo a danzare indiavolati
tutti quanti, prendendo energia uno dall’altro e senza urtarci mai,
corpo unico e selvaggio.
Forse non è un caso che tutto il lavoro precipitasse verso un duello tra
Morte e Vita prima ridicolo, a suon di canzonette, e poi tragico,
danzando Bach. Eravamo guerrieri, in fondo, e usavamo le nostre armi
leggere perchè era necessario combattere, in quel tempo. E anche ora.
Leo non ha mai smesso di interrogarsi sul suo agire.
Ogni volta rispolverava i suoi strumenti e i suoi sberleffi, per tentare
di rivelare i pensieri profondi che stavano nell’aria e che non
trovavano ancora parole per essere formulati, per capovolgere la visione
degli assetti del potere, per creare in breve tempo legami che
resistono ad ogni separazione, per conciliare sapere intellettuale ed
esperienziale e infine, per incitare a studiare fino al punto da poter
osare abbandonare quello che si crede di sapere e scoprire quello che
non si voleva vedere.
Questa presente e viva lezione di Leo e la coscienza di avere tanto
ricevuto, ci legano a una promessa fatta tempo fa, senza parole e senza
obblighi: non dimenticare la responsabilità gioiosa che il nostro fare
comporta, in ogni momento, in ogni piccolo atto, in ogni sottilissima
scia.
(riscrittura per il ‘libro’ del contributo all'incontro "La Commedia dell'Arte di Leo de Berardinis", che si è svolto il 14 luglio 2008 nel quadro del Festival-Laboratorio "Arlecchino Domani" della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano - all'incontro hanno preso parte: Gerardo Guccini, Marco Manchisi, Stefano Perocco e Marco Sgrosso)