Nonostante io scriva, non sono una scrittrice, nonostante debba
dedicarmi a costruzioni di pensiero, non sono un’intellettuale,
nonostante canti non sono una cantante e nonostante insegni non sono una
docente.
Il mio lavoro è quello di costruire progetti e compagnie teatrali,
scrivo spettacoli e li dirigo, cercando di coniugare tradizione e tempo
presente perchè il mio lavoro non resti confinato nel campo della prosa,
ma si innesti nel percorso delle altre arti, che sento sempre vicine e
mai separate dal mio fare. Colgo ogni occasione di collaborazione che,
come questa, accenda una luce per la mia onnivora curiosità e avendo
scelto una via di conoscenza che passa sempre attraverso l’azione, non
fidandomi della mia attitudine pigra e contemplativa, mi accingo a
scrivere non un trattato, ma una semplice cronaca di immagini ed
esperienze collegate all’argomento in questione.
Maschera e porta, porta e maschera...
Pensando a questo scritto, ho subito visto le due maschere complementari
di riso e pianto che dall’antica Grecia hanno viaggiato fino a noi
significando sempre il teatro. Le ho immaginate in alto al centro del
boccascena, la porta - specchio che, nel consumarsi dell’atto teatrale,
consente di uscire dalle consuete percezioni della quotidianità e di
vedere se stessi e disvelarsi agli altri, nell’atto della ri-flessione
emotiva e creativa... Quella porta, della quale mi sono innamorata, apre
la strada tra il sé e gli altri, tra il sé e il mondo, strada che,
percorsa in entrambi i sensi, ci allena alla duttilità e alle
trasformazioni e ci preserva dal pregiudizio e dalla forza
dell’abitudine.
Eccole dunque legate, porta e maschera, non da una forzatura
dell’immaginazione, ma da secoli di storia e di teatro, da molte onde di
pensiero che hanno lasciato sulla riva, per me, questi segni: la
maschera è una porta, la porta è una maschera.
Ogni attore, prima o poi, fa i conti con la maschera, sia che si tratti
del mistero che avvolge l’uso di quelle greche, sia che si tratti del
confronto con una delle più potenti e ignote tradizioni, quella della
Commedia dell’Arte o Commedia all’italiana, sia che, dopo qualche anno
di lavoro, si trovi a guardarsi allo specchio, cercando di capire cosa
mai succeda al suo volto nell’infinitesimale frazione di tempo che
separa lo spazio privato da quello pubblico, sul palco, nel quale il
volto si trasforma.
Eleonora Duse, stanca della sua immagine, non si guardava più allo
specchio, ma fissava a lungo, prima di andare in scena, un suo ritratto
da ragazza, nel quale riconosceva una maschera plasmabile, libera dai
segni del tempo e quasi estranea. La indossava con il pensiero e forse
con i muscoli del volto e, scivolando senza voler vedere nulla dal
camerino al palco, trovava il coraggio di recitare come amava fare lei,
sempre più nuda, senza trucco e trasparente, ma con la sua immaginaria
maschera ben calcata sul viso.
Non si fatica quindi a vedere come una maschera possa diventare una
porta. Se Oscar Wilde la individua come una delle strade per poter
essere sinceri, allo stesso modo l’attore, celando la sua individualità,
apre la porta sulla moltitudine di io che tutti noi siamo, con diversi
modi di pensare, di agire, di guardare, di camminare.
Non solo: la maschera apre la porta alla follia, forza che spesso si
teme, si costringe, si ignora. Quando dico follìa, non intendo la
dolorosa esperienza della malattia mentale. Parlo di una forza
estremamente rigenerante e creativa che si sprigiona nell’azione
teatrale, quando ci si senta liberi.
Creare, almeno per quanto riguarda la mia piccola esperienza, significa
anche ordinare in altro modo elementi già esistenti. Mentre l’io di
tutti i giorni tende a mantenere l’ordine dei gesti e ad affezionarsi
alle abitudini nell’illusione o nel dovere di difendere un’identità,
l’io che sale sul palco rinuncia per definizione alla sua identità e si
può permettere, celando il viso, di buttare per aria convenzioni e
convinzioni, legami, comportamenti e codici morali e intellettuali per
creare i corto circuiti che colpiscono le sfere emotive e svelano una
diversa visione del mondo.
Accredito la versione secondo la quale la forza eversiva e temutissima
della Commedia dell’Arte, ammirata dal popolo - e, guarda un pò, dai re -
ed esecrata dai moralisti - che la chiamavano ‘teatro del mondo
capovolto’, ‘ricettacolo di ogni male’ - fosse dovuta ad un uso
meraviglioso e libero dell’oggetto maschera, che permetteva lo scherzo
sul potere, la denuncia dell’ipocrisia, la risata liberatoria che
rovescia il grigio ordinamento gerarchico.
E se molte donne furono famose in quel teatro, pur senza portare
maschere, posso con presunzione avvalermi di questo fatto a conferma
della mia affermazione: la porta verso la libertà che ci apre la
maschera non dipende dalla magia di un oggetto, la cui credenza ci
renderebbe idolatri e ancora una volta schiavi di una superstizione
fuori di noi, ma dal consapevole uso della nostra interiorità e degli
infiniti veli che possiamo mettere all’anima, facendo in modo che ogni
velo ci riveli ancor di più, quietando la paura.
Tuttavia, nel lungo percorso che porta all’arte maestra dell’uso delle
maschere interiori, è utile, come in ogni disciplina, chiedere aiuto di
volta in volta alla concretezza degli oggetti, usati come limite e
trampolino per l’immaginazione, perché essa trovi strade precise di
espressione e comunicazione senza perdersi. Non sempre l’intelletto e il
pensiero, abbandonati a se stessi e alle loro infinite varianti,
trovano un esito: spesso bisogna ricorrere alle pratiche umili
dell’artigianato, che scopre nuovi mondi dalla lezione dei materiali,
dalla bellezza di un pezzo di legno, dalla lavorazione del cuoio, dalla
potenza evocativa di un oggetto usato da molti altri prima di noi.
Ecco un’altra porta che si apre su un percorso, quello necessario ad
acquisire con piacere la tecnica che serve alla qualità massima
dell’espressione, delineato a sua volta da altre innumerevoli porte:
siamo nel territorio delle infinite varianti dell’intonazione della
voce, della pronuncia delle parole, della scelta della lingua - dalla
pronuncia secondo la convenzione della dizione alla sporcatura scelta
del dialetto - della costruzione del movimento, della definizione dello
spazio dato o inventato, della costruzione di un testo, sia scritto che
improvvisato.
La maschera può diventare maestra di tecnica e - come ci insegna la Duse
- può essere di infiniti materiali e di svariate fattezze, a seconda
della porta che vogliamo aprire. Anche un paio di scarpe possono
diventare una maschera, se con esse l’attore si sente libero di
camminare come mai ha fatto, varcando la porta del suo stesso pudore o
dei suoi limiti fisici, anzi, trasformandoli in qualità.
La prima porta aperta è proprio quella che ci svela il movimento, prima
ancora che diventi suono. Una maschera utile - e sottolineo ancora,
diversa per ognuno - è quella che ci libera dall’abitudine ad una serie
di movimenti che il nostro corpo recita come se fossero naturali, ma che
derivano dalle prime imitazioni dei famigliari, dalle consuetudini dei
luoghi frequentati, dai miti, dalle caratteristiche attraverso le quali
ogni individuo si è adattato al suo ambiente.
Ci accorgiamo che questa è anche una maschera temporale: ci svincola
dall’epoca nella quale viviamo per proiettarci nel nostro antico essere
animale, che sente fame, freddo, aggressività, desiderio sessuale, senza
le abituali mediazioni create dalla cultura e dalle regole - di volta
in volta modificate - della convivenza civile.
Può accadere che una donna abituata a movimenti rotondi, moderatamente
sensuali e minimi, indossando una maschera da selvaggio Arlecchino si
trasformi in una pantera che attraversa a balzi lo spazio scenico,
assumendo movimenti e modi di relazione che nulla conservano dei codici
della sua educazione e del suo sesso. Così può accadere che un uomo,
controllato e sicuro di sé, nel pieno delle forze, si trasformi in una
pianta tremolante indossando la maschera di Pantalone.
Ogni persona, attraverso la maschera, si tramuta in quello che non è in
apparenza, in quello che non conosce, per conoscerlo meglio: essendo
animale, non lo teme più, ma lo asseconda, essendo vecchio, si prepara
alla vecchiaia, essendo assassino e folle, cerca di non diventarlo,
purchè faccia un atto di fiducia nella forza vitale che unisce in sè,
senza renderli nemici, istinto e intelligenza. Qualora avvenga
quest’atto amoroso, ecco farsi avanti una parte istintuale che pare ci
detti i gesti e i suoni, come se venissero fuori di noi e quasi
suggeriti.
Mi piace pensare che le maschere, tramandate di epoca in epoca
attraverso fortunose vie che le hanno sempre in parte modificate,
conservino ancora una traccia della sacralità affidata a loro dai nostri
antenati quando, usate in senso sciamanico, aprivano le porta al
tentativo di codificazione del mondo e alla pratica dell’uscita da sè
come mezzo di conoscenza e di osservazione senza giudizio.
Se così fosse, quel patrimonio di personalità suggerito dall’uso dello
strumento maschera, non è altro che un coro di segni rimasto nell’aria
attraverso il tempo, perché venga ascoltato e fatto risuonare.
Ecco il punto temuto; quando si comincia a scrivere o parlare di teatro,
inevitabilmente si affacciano, nell’intento di spiegare, terminologie
vaghe che partecipano di filosofia e quasi di religione, senza la
precisione ad esse dovute.
Nell’atto pratico dell’azione scenica, si è invece molto lontani dalla
vaghezza: tutti i sensi sono vigili e pronti nel valutare la forza di un
balzo, la durata di un suono, il senso delle parole che affluiscono, lo
spazio, la luce, il tempo.
Per raccontare della mia esperienza con le ‘mie’ maschere - porte senza
scivolare nella fumosa e affannosa ricerca di parole astratte, farò
riferimento a due importanti spettacoli di Leo de Berardinis, il mio
maestro, che lasciano ancora il segno, dopo anni, nella memoria del
teatro italiano.
Il primo è ‘Il ritorno di Scaramouche’.
Mai avevo toccato o portato una maschera, se non alla scuola di teatro.
Me ne trovai davanti moltissime, create da un geniale artista artigiano
che si chiama Stefano Perocco di Meduna, da tempo rubatoci dalla
Francia.
Quelle maschere vuote e cieche, che aspettavano inanimate su un tavolo,
svegliarono in me un’immediata diffidenza, come se volessero rivivere la
loro essenza attraverso me, fatta strumento vivo di intenzioni altrui.
Pur vergognandomi, mi sentivo completamente superstiziosa, fingendo di
manovrare la ragione.
Illuminista mio malgrado, non volevo credere al fatto che ci si scelga
reciprocamente, loro oggetti e noi attori. Scoprii che è così invece,
allo stesso modo in cui le scelte e gli accadimenti della vita
rispondono ad una spesso inconsapevole nostra volontà. Disdegnai le
maschere maschili. Se è vero che, per molto tempo, non fu concesso alle
donne di portare maschere, non mi volevo piegare a rubare quelle
destinate ad altri, ma, presuntuosetta, ne volevo inventare di nuove,
tutte femminili.
Fui subito tentata, in quel momento, dalle maschere bianche che non
vengono abitualmente usate per recitare, ma per nascondere e proteggere.
Forse non fu un caso che scegliessi la bautta, che in tempi di Carnevali
oscuri e folli dissimulava ogni identità e la maschera del dottore
della peste, che in tempi diversamente bui, proteggeva con un lungo naso
la salute dei medici, e nel cui interno venivano bruciate erbe
disinfettanti, nell’atto della visita ai malati. Facevo i conti con la
mia paura e con la mia timidezza, nonostante la finta spavalderia e con
il senso di contaminazione, che a tratti può apparire oscena, che si
nasconde nell’atto di mostrarsi.
Leo ci invitò a scegliere dei personaggi-chiave e a scriverci i testi,
secondo una reinvenzione del metodo della Commedia all’italiana detta
anche all’Improvviso, che prevedeva la creazione, pur seguendo schemi di
canovaccio da tutti riconosciuti, di sempre nuove versioni dei
personaggi, a seconda dell’attore che li interpretava, fino ad arrivare a
personaggi - limite che, come nel caso di Isabella Andreini, prendevano
il nome dagli attori stessi. In fondo, un’estrema riappropriazione del
teatro - in senso laico e ‘politico’ - da parte di chi, per la prima
volta, lo agiva come professione, come totale dedizione.
In quell’universo nuovo, elementare e violento, privato dei canoni
borghesi nei quali ero abituata a vivere e sollecitata dalle letture
della moderna storiografia francese intorno alla morte, scelsi proprio
quel personaggio, la Morte. Vestita di nero, le braccia nude, le scarpe
da ginnastica bianche come la maschera, apparivo come un moderno
scheletrino, diviso tra rapacità e desiderio di essere amata, per
arrivare ad una profonda pietà per il destino degli umani e ad una
battaglia finale con la Vita, interpretata da un’attrice in rosso, con
una maschera da Strega e danzata da entrambe sulla musica di Bach,
Passione secondo Matteo.
Ho sempre esercitato il corpo e la voce, pur non essendo danzatrice e
cantante. Avevo bisogno di strumenti agili che seguissero senza
brontolare il mio istinto improvvisativo. Studiavo da sola i movimenti
necessari per allenarmi al compito che quelle maschere mi chiedevano:
disarticolazione, velocità massima, elasticità, potenza.
Quando lo spettacolo debuttò e arrivò a Roma, mi accorsi, dalle domande
dei danzatori e degli attori, che avevo creato qualcosa di importante,
non tanto per il successo del personaggio, ma per la scommessa vinta :
attraverso un percorso rigoroso del tutto individuale, sollecitato da
un’intensa percezione delle necessità della scena, si potevano
raggiungere risultati alti che attenevano a diverse discipline, senza
avere una preparazione specifica e settoriale.
Quella fu la prima porta varcata della quale ebbi coscienza: senza la
maschera, che mi consentiva di non essere l’Elena rigorosa che non si
cimenta senza avere studiato, non avrei scoperto quanto sia
‘intelligente’ e astuto il nostro corpo, che, strutturato per non essere
diviso, e una volta accettato nella sua unità, ci fornisce le
scorciatoie e le vie per accedere alla creazione, rispondendo con
imprevedibile duttilità agli impulsi dell’immaginazione.
La seconda porta fu quella della scrittura: le mie maschere parlavano
una lingua che non potevo trovare scritta in alcun testo, perchè mai
avevano parlato, nella storia del teatro, e perché, nella loro ritrosa
ed elegante sapienza, i comici dell’arte non ci hanno lasciato ‘testi’
da imparare pur modificati, ma soltanto tenui canovacci, trame, brevi
storie, sulle quali ogni attore disegnava la sua personale versione.
Quale autorizzazione alla libertà stavo trovando, quale rispetto per
ogni possibile variazione dell’umano! L’unica regola quella di attivare
la comunicazione con il pubblico, l’unica barriera, la qualità estrema
della realizzazione, maniacale e instancabile. Per parlare, dovevo
inventare, cioè trovare, le parole e i discorsi della mia Morte.
E qui si aprì una porta nuova: avevo scelto quelle maschere mute per dar
loro voce, come volevo dare voce ad un sentimento personale di grande
legame con chi ci ha preceduto e ci accompagna ancora, con le opere, se
ha potuto lasciare un segno, con un mistero, se non ha voluto o potuto
dare voce al suo sentire. Volevo insomma fare la pace con la morte e con
la paura che ci fa, volevo addomesticarla, pensandola come un passaggio
che ci rende fratelli, ultima porta apparente, mistero da attraversare a
testa alta.
Senza la maschera, non avrei trovato le parole per esprimere questi
pensieri tutti emotivi, non li avrei comunicati al pubblico con quel
linguaggio complesso che partecipava di comicità e tensione tragica,
linguaggio poetico e in prosa, gesti e danza. Il pudore mi avrebbe
trattenuto, la difficoltà mi avrebbe scoraggiato. Mi confortava il
pensiero che non fossi io, ma lei, la maschera, a dover agire.
Nello spettacolo che seguì, sentii il pericolo del feticismo intorno
alla maschera, che, perpetuato, mi avrebbe reso prigioniera. Confortata
da Leo, che, attento, sorvegliava ogni nostra possibile scivolata nella
pigrizia, nell’errore o nella viltà, abbandonai le mie fortunate
maschere bianche e ne scelsi una in legno, piccolissima, di ispirazione
orientale. Ecco che i movimenti da puntuti e velocissimi diventavano
morbidi e sensuali, assertivi, tangheiri. Indossai scarpe con il tacco
che mi permettevano di colpire il palco a ritmo con il battito delle
mani, contrappuntando i testi di Shakespeare, il King Lear.
L’improvvisazione consisteva nel costruire il suono, la dilatazione
delle parole, il ritmo, pur ancorata al senso e alla storia esistente.
Senza la maschera, non avrei mai osato quella sensualità del tutto
animalesca, mai quotidiana, che mi permetteva balzi da un palco della
commedia all’altro che mai avrei immaginato di poter fare, io che i
tacchi, non li porto mai. Dopo l’invenzione, venne lo studio del
movimento, il potenziamento dei muscoli necessari. E quando Leo mi
chiese se mi disturbasse recitare in costume da bagno, dissi ‘io mi
vergogno!’ pensando che scherzasse, ma accettai e trasformai in maschera
anche quello.
La porta che si aprì allora era quella che mi svelava sentimenti non
abitualmente frequentati, perchè bloccati dalla morale o dal moralismo:
l’avidità, la sensualità manipolatrice, il tradimento, la violenza che
assassina. Tutte cose presenti in me, come in tutti, ma che ora mi
permettevo di dipanare senza vergogna. Guardare quei sentimenti senza
giudizio, come appartenenti a me in maschera, mi ha permesso di
accettarli e usarli come strumenti per i personaggi, liberi dalla
repressione che istupidisce e nega.
Quando mi sono trovata ad usare le maschere in uno spettacolo scritto da
me ‘La pazzia di Isabella’, dedicato alle figure dei Comici Gelosi -
appunto Isabella e Francesco Andreini - che nell’arco di una vita,
insieme a molti altri, riuscirono a trasformare il lavoro degli attori,
prima confinato nelle piazze, in un arte ricercata da principi e re,
dando al mestiere del teatro la dignità di un’alta professione, mi
accorsi che dovevo trasformare l’uso della maschera e non abusarne.
Mentre cercavo di inseguire con la scrittura la vita di Isabella,
inusualmente accettata nelle Accademie dei poeti, poliedrica creatrice
che non rinunciò ad essere donna, tanto coraggiosa da scegliere come
cavallo di battaglia ‘la pazzia d’amore’, che, per quanto temuta, tutti
ci avvicina, ho cominciato ad usare le maschere proprio nel modo
assolutamente proibito da ogni filologo: sempre mescolando teatro e
vita, denunciavo il mio cambiamento mettendole e togliendole in scena,
durante un dialogo o una riflessione, a seconda del livello di nudità
che intendevo raggiungere.
Il pensiero del personaggio Isabella e il suo coraggio, mi sostenevano
nel rinunciare allo strumento che mi aveva tanto aiutato. Solo dopo
avere debuttato, dopo il magico e rivelatore contatto con il pubblico,
cominciai a comprendere che stavo cercando di distanziarmi dal mio
aspetto al punto da creare di esso maschera viva, per poter deporre gli
strumenti in cuoio e legno.
E si aprì una porta ancora: la maschera che nella vita uccide, perché
nasconde e alimenta la paura del disvelamento, sulla scena libera,
incoraggiando a rinunciare di riflesso, anche nella vita, al
mascheramento.
Oso immaginare che il mondo rovesciato al quale si allude, quando si
parla del mondo evocato dalla Commedia dell’Arte, non sia che l’utopia
di un’umanità che, dopo avere tanto giocato con tutte le maschere
possibili, alla fine possa deporle, guardarsi, e guardando, mutare.
La maschera dunque è una porta. E la porta che diventa maschera, come ho
scritto all’inizio e mi suonava tanto bene? possiamo crederci per un
momento, ci è utile?
Per me, sì, se immagino che, come le maschere, anche le porte non siano
che strumenti per separare, nell’atto della conoscenza, ciò che in
realtà non è mai stato diviso: il mondo, nello sberleffo della sua
imprevedibile complessità e la strada meravigliosa che ognuno vi compie
proiettandola verso un futuro che non vuole finire. Per non restare
abbagliata dalla vastità del viaggio, costruisco o immagino le porte,
per poterle chiudere e riposare, per poterle aprire e usare da cornice
ad uno spicchio di visione, per poter godere della sorpresa rinnovata
ogni volta che torno, paziente, ad aprirle ad una ad una, ripetendo un
percorso antico verso la conoscenza per fortuna ancora denso di mistero,
moltiplicato e diverso per tutti quanti siamo.