INQUIETI E SENZA SALUTARE

Lo spazio della memoria versus Il ritorno di Scaramouche

Ciao Leone dalle molte vite
ciao maestro e ciao ribelle, istigatore di libertà e coscienze
e creatore di amabili prigionie.
Ciao, mago del teatro dell’ombra e del mutamento,
guerriero in viaggio dove non so seguirti.
Ciao, imprevedibile e inatteso.
Ora mi capita di parlarti come prima non sapevo.

Caro Leo,
quante lettere ti ho scritto senza fartele avere mai. Non serviva. Passavano in quello che tentavo di fare nelle prove, quotidiano spettacolo per te.
È stato difficile, dopo che tu sei entrato in un altro stato, di quelli che a fatica sappiamo accettare e nominare, organizzare occasioni pubbliche per ricordarti. Per quanto riguarda me, non volevo fregiarmi del tuo nome in tua assenza, cosa che mai hai sopportato, e non so dire se a torto o a ragione. Ho cercato di avere presente il tuo sguardo mentre lavoravo, costante, impietoso, entusiasta, polemico, contraddittorio. Perché tu sei uomo di guerra e non di pace. La battaglia ti rendeva lucido e visionario e noi con te.
Perla se ne è andata senza una parola. Adesso che all’improvviso è morta di un tumore fulminante - ma è vero? oppure lei sapeva e non ha voluto, anche in questo caso, dire niente? - noi che l’abbiamo conosciuta ci rendiamo conto che abbiamo vissuto la sua presenza come fosse immortale, come se ci fosse sempre il tempo di interrogarla, intervistarla, affrontare il suo amore e il suo disprezzo.
Come è stato per te.
Di entrambi restano ricordi incancellabili in chi li ha visti in scena e conosciuti, pochi libri, fotografie disperse, un archivio girovago approdato a Bologna, oggetti di scena e costumi sparsi, pellicole...tutto questo in un disordine operato dal caso e forse da una nascosta volontà di dispersione. Ricordo i quaderni di Perla, nei quali, tra disegni e recensioni incollate, costruiva la cronaca dei favolosi tempi di Leo e Perla. Me li diede a Roma, nella casa di via Nizza abitata da colonie di gatti, perché io potessi cominciare una tesi su Leo, che non fu mai scritta, dato l’insorgere di una mia profonda difficoltà nel conciliare l’esperienza vissuta del teatro con uno sguardo critico e documentario. Forse per lo stesso motivo, non ho manifesti, locandine, programmi di sala nè altro che riguardi i miei spettacoli con Leo. Ho sempre saputo che avrei dovuto prenderli e conservarli, ma il solo atto e il solo pensiero, significava per me decretare una futura fine, che, scaramantica e infantile, del tutto innamorata del tempo presente al quale è incatenata la nostra opera, ho sempre rifiutato. Mi trovo ora senza nulla, se non con la mia crudele, implacabile, puntigliosissima memoria.
Ora che si pensa ad un libro su Leo e per Leo, non posso non domandarmi come vorrei questo libro. Lo immagino come i suoi spettacoli: misto di scritture alte e basse, scientifiche e poetiche, con spezzoni di film e registrazioni sporche e usurate. Lo immagino in musica.
È singolare porsi la questione di documentare e ricordare il teatro di qualcuno che afferma che il teatro non può in alcun modo essere documentato, qualcuno che odia le riprese e che con grandi ripensamenti accettava le fotografie, tratte da pose estenuanti. Questo atteggiamento suona ancora rivoluzionario, in un’epoca nella quale una tecnologia più accessibile e apparentemente democratica ci spinge a documentare ogni atto teatrale, prima ancora di averne studiato una grammatica rispettosa che non ambisca a conservare un’opera intraducibile, ma soltanto a fermarne qualche parametro di riconoscimento. Guidata da questa riflessione, ho scelto uno soltanto dei fili dei quali è tessuta la straordinaria esperienza vissuta con lui, quello che legava costantemente morte e vita, inizio e fine, sia in prova, che sulla scena, che in viaggio, o nel prendere un caffè al bar. Proprio come la sua apparente stasi di ora sollecita l’uso di tempo imperfetto e di tempo presente: Leo è, Leo era.
Leo è stato il mio maestro, colui che ho incontrato appena sono uscita dalla scuola di teatro di Bologna e che non ho lasciato prima che fossero passati quattordici anni e molti spettacoli.
Seppi per caso che ‘faceva provini’ e mi presentai all’appuntamento con tutta la ‘parte’ di Gonerill (King Lear) a memoria. Lo vidi di spalle, con un mantello nero, i capelli argento e in braccio un piccolo cane tremante. Sbagliando mi sedetti proprio davanti a lui, in platea, come se non reggessi lo sguardo. In scena c’erano la vasca da bagno e la ragnatela del ‘Dante Alighieri’. Impigliandomi nella ragnatela, recitai e recitai. Come fu sempre in seguito, parlammo pochissimo, di certo fraintendendoci, visto che non c’era alcun solerte traduttore (ruolo che spettò a turno a diversi miei compagni di scena). Ci si capiva quasi esclusivamente attraverso il teatro. Sentii subito che là il teatro si abbracciava alla vita e, per forza, anche alla morte.
Ho profondamente partecipato ai primi spettacoli prodotti da Nuova Scena e alla successiva fondazione del Teatro di Leo, imparando nello stesso tempo a stare in scena e a riflettere sulla grande responsabilità che comporta ogni atto artistico, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista etico e politico. Tutto questo imparare e riflettere non è mai stato praticato in climi tediosi, seriosi o rigidi: la lezione consisteva proprio nell’acquisire un metodo per poterlo tradire, una tecnica per abbandonarla, una coscienza per essere folli, un rigore per permettersi inaudite ma fondate libertà.
Ma soltanto nel corso del tempo e soprattutto ora che ho una compagnia mia e, oltre a recitare, scrivo e dirigo spettacoli, ho potuto aggiungere all’ammirazione una reale comprensione del suo paziente insegnamento: la lezione della velocità, della libertà compositiva, del rigore unito all’amore per l’innata e sublime cialtroneria del teatro, della necessaria consapevolezza della propria posizione nella storia che induce sempre ad assumersi la responsabilità di una trasformazione e di un cambiamento.
Allo stesso tempo, quanto più sono cosciente di quanto lui mi ha trasmesso, tanto più sento bugiarda qualsiasi tentazione agiografica che, allineandosi con lo stile tutto al superlativo che correda oggi ogni opera che si presenti al mondo (tattica inelegante e del tutto commerciale, o quantomeno indice della povertà culturale dei tempi), tradisca l’intima disperazione del suo lavoro, sempre ai suoi occhi insufficiente, sempre manchevole, sempre, dolorosamente, allusivo.
Nonostante abbia molto da raccontare su di lui e sul suo lavoro, e forse proprio per questo, non nascondo che stilare queste quattro pagine sia molto difficile: da un lato comprendo e apprezzo lo sforzo che molti stanno facendo per documentare il lavoro di Leo e lasciarne memoria in chi non l’ha visto e conosciuto, dall’altro continuo a domandarmi dove in realtà sia scritta la storia del suo teatro. Ripenso ad Eleonora Duse quando scrive: ‘detesto le biografie, le autobiografie, le commemorazioni, i centenari, io li detesto...’
E non me ne vogliano gli studiosi, tra i quali conto amici valorosi e geniali, senza i quali non avremmo documenti preziosi e letture illuminanti. Vorrei soltanto puntare l’attenzione, trattandosi di un maestro anche in questo campo, sull’ambivalente tensione costruttiva e distruttiva (anche per quanto riguarda la parte documentaria del lavoro) che ho sempre intravisto come fonte ispirativa di Leo e che ha creato uno dei maggiori punti di forza della mia esperienza con lui.
E sia chiaro che non penso affatto che Leo o la Duse detestassero che il proprio lavoro fosse riconosciuto, documentato e ricordato. Penso che temessero che fosse relegato ad una dimensione troppo angusta, ridotto, tradotto, fermato. Chiuso il sipario - quando c’è - non c’è più opera, quella che può essere interpretata e sentita in mille modi, non c’è lo sguardo che contraddice la battuta, il gesto interrotto che interdice l’enfasi, la magia magnetica del corpo vivo. Tutte cose risapute e mille volte ripetute, come si ripete la morte per ognuno, senza che alcuna singola defezione arricchisca il sapere di chi rimane. Eppure sono convinta che uno dei misteri di Leo sia proprio nascosto nel suo eternamente corteggiare la Morte pur desiderando mortalmente la vita che spesso soltanto lo sfiorava, incompresa e incomprensibile. Il suo teatro, per il quale era richiesta una certa dose di ‘morte di sè’, era uno strumento formidabile di indagine, un mezzo per rivelare ciò che, nella vita quotidiana, rimane compresso e nascosto.
Forse per questo uno degli spettacoli più ricordati e impressi nella memoria resta ‘Il ritorno di Scaramouche’, nel quale lui osò portare la maschera più temuta, quella del vecchio tradito e preso in giro che si perde nel roteare tra la maga della vita e il fumetto della Morte. Quello spettacolo portò anche a compimento il disegno di una compagnia che - con le sue misteriose leggi di crescita, armonia, compenetrazione - Leo aveva cominciato nel 1984 con ‘Amleto’, in coincidenza con l’inizio di una delle sue molte vite.
Ripensando proprio alle molte vite di Leo, a quanto ho già scritto sulla contraddizione creativa creata dalle diverse pulsioni a costruire e distruggere (autodistruggere?) mi piace inscrivere la mia esperienza tra la creazione de Lo spazio della memoria, immensa lezione di coraggio, autonomia, generosità e fiducia nell’ideale comunità degli artisti e ‘Scaramouche’, nel quale tutto questo era confluito ed era stato trasformato nel puro teatro che in sè stesso termina, uccide e si uccide, pur rimanendo un atto grande di fiducia. 

[Non a caso il mio scritto su Leo si chiama ‘inquieti e senza salutare’
lo so che è brutto non salutare, ma anche salutare è molto brutto
specialmente quando non si vuole partire]