Canto alla Libertà
nell'ambito del progetto di teatro e musica "Canto alle vite infinite”
drammaturgia, regia e interpretazione Elena Bucci
musiche originali dal vivo o registrate, al pianoforte, alla fisarmonica e altri strumenti
Christian Ravaglioli / Fabrizio Puglisi / Simone Zanchini
disegno luci Loredana Oddone
drammaturgia sonora, cura del suono, documentazione audio Raffaele Bassetti
scena Elena Bucci - costumi Marta Benini
assistenza al progetto Nicoletta Fabbri - documentazione video Stefano Bisulli
una produzione Le belle bandiere
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Comune di Russi
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Sono incantata dallo spettacolo delle vite degli altri, dalla fisionomia
stratificata dei luoghi, dai racconti che evocano un tempo che non ho
vissuto. Così il mondo è diventato per me un grande libro del quale
provo a decifrare il sussurro per farne un racconto in musica. Un volto,
una frase, un paesaggio, diventano la chiave che mi permette di entrare
in una dimensione dove passato e futuro si incontrano, dove i fantasmi
prendono per mano i vivi.
Pur non essendo una cantante e una
compositrice, la mia scrittura nasce ispirandosi alla musica e si
trasforma intrecciandosi ad essa, in un continuo scambio con musicisti
che a loro volta cercano il filo che connette tradizione e presente,
memoria e futuro. Pur non essendo danzatrice, cerco la mia danza. Le
donne che mi hanno allevato, le maestre e i maestri che ho incontrato e
il desiderio di trarre dalla memoria un racconto, hanno fatto di me una
cantastorie.
I miei melologhi si intrecciano gli uni agli altri per
mettere a fuoco temi e aspetti diversi del grande spettacolo della vita,
ma sempre con una predilezione per chi non ha voce, per chi fatica a
trovare il suo posto e scivola fuori dai binari, per chi si tiene
stretta la sua libertà ad ogni costo, per chi sa trasformare la vita
quotidiana in poesia. Ascolto i paesaggi, aspettando il momento nel
quale sono più vuoti e risuonanti e mostrano le ferite inflitte dal
tempo e dallo sfruttamento degli umani: le città con tutto il loro
carico di segni e scricchiolii, i luoghi vissuti dalle comunità e poi
abbandonati, le fabbriche dismesse, le case di contadini con il tetto
sfondato, i palazzi depredati, le campagne senza più fisionomia abitate
dal profilo nero degli irrigatori giganti, gli argini dei fiumi e i
luoghi solitari dai quali pare di veder scorrere la storia, con tutti i
suoi crimini, gli eroismi, i misteri.
Spesso parto da illuminazioni
che mi arrivano dalla terra dove sono nata e dalla quale fuggo e
ritorno, esule con radici forti. Indago la frattura dolorosa con il
passato avvenuta in nome di un’economia e di un progresso che hanno
spesso mortificato il sentimento della fratellanza e della bellezza e il
gusto dell’originalità e della complessità. Ritrovo parole perse, modi
di dire, suoni, immagini che danno una scossa alla mia scrittura e mi
innamorano. Lo studio della mia terra mi induce a indagare con la stessa
affezione e curiosità altre storie e paesaggi per trovare differenze e
affinità in una moltiplicazione di sorprese e riconoscimenti che mi fa
sentire cittadina del mondo.
Sempre di più mi sento un archivio vivo, un registratore vivente, un
copione al quale si aggiungono pagine. Vorrei raccontare tutto e tutti e
non riesco a lasciare indietro uno sguardo. So bene che non potrò
riuscire e accetto di fallire sotto lo sguardo di una folla di creature
in attesa: faccio la mia parte, altri continueranno.
L’ultimo
spettacolo, ’Canto alle vite infinite’ mi ha portato nel regno dei
fantasmi per dare voce a chi non c’è più, per inseguire una scia di
esistenze luminose, di modi di vivere che si fondavano su un patrimonio
di saperi e di ascolto che si trasmetteva da persona a persona e che a
tratti pare dissolto, ma che invece permane e va raccolto. La
sconvolgente alluvione della Romagna nel maggio 2023 ha fatto
precipitare tutti i ritratti di persone e paesaggi in un unico racconto.
Intanto si accumulava una moltitudine di appunti in attesa di una scintilla.
Un giorno di fine giugno una signora di novantacinque anni dagli occhi
blu appassionata di ciclismo, aspetta in sedia a rotelle sul ciglio
della strada il passaggio del Tour de France, che taglia in due la
Romagna. Hanno apparecchiato una grande tavola di giallo e l’hanno
riempita di cibo e di albana. Mi chiede sottovoce di spostarla perché,
mi spiega, da lì dove l’hanno messa i figli non vede bene. Qui, qui,
qui! Adesso sì che vedo bene in faccia i ciclisti, dice. All’improvviso
mi racconta di un maestro anarchico, amico del suo bisnonno, che
insegnava ai suoi allievi ad essere liberi di scegliere vita, mestiere,
religione, credo politico nel rispetto del bene comune e della libertà
altrui. Ho una sua lettera, mi dice. Capisco che è un suo talismano, da
guardare quando si perde la forza. Quell’avo potremmo ritenerlo un
inoffensivo sognatore, invece fu trattato come un pericoloso criminale,
un rivoluzionario senza esercito. Fu radiato dall’insegnamento, escluso
da ogni lavoro e se non fosse stato per l’aiuto di chi lo stimava e gli
voleva bene, sarebbe morto di fame e di tristezza. I ragazzi andavano di
nascosto a lezione da lui. Mi domando se non sia tornata un’epoca
simile, dove sognare di cambiare il mondo in funzione della felicità di
tutti può diventare motivo per una condanna. Mentre la signora con gli
occhi blu mi parla, guardo la strada che conosco da quando sono nata:
ora è piena di gente, ma di solito è deserta. Solo macchine e camion che
corrono. La vedo brutta, sgraziata, le serrande del falegname sono
chiuse, vuota da pochi mesi la bottega del fabbro che era un’opera
d’arte, serrate le finestre delle case. Immagino la musica di suoni del
passato. Cosa è successo?
Quale guerra invisibile l’ha sfiorata?
Penso la stessa cosa quando cammino nei viottoli di campagna e la terra
intorno è un deserto maligno senza alberi, case, fossi e piante di rose,
quando vedo spuntare da un giorno all’altro un supermercato nuovo a
duecento metri da un altro senza un cespuglio che ne nasconda la vista e
salvi l’ombra.
Mi è venuta voglia allora di allungare lo sguardo
tra la folla, su per le colline, verso la campagna piatta, verso il
mare, nelle città dormienti, oltre i confini del nostro paese per
indagare un altro confine: quello che divide follia e saggezza,
connivenza e ribellione, conformismo e autenticità, salvezza e perdita,
dove nei paesaggi si è rotto l’equilibrio e dove invece germoglia nuova
vita, dove la viltà rende il cuore pietra e dove il coraggio fa
rischiare la vita per un’idea.
Penso alla ragazza iraniana che gira
per strada in mutande e reggiseno sfidando da sola la follia del potere.
Penso alle cordiali campagne del reggiano dove fu uccisa una ragazza
italiana di famiglia indiana solo perché troppo libera e dove ricordo
una domenica mattina di nebbia popolata solo da indiani maschi in
bicicletta con i loro abiti tradizionali e i piedi nudi nei sandali.
Vorrei raccontare luoghi e frammenti di vita di chi ha guardato dentro
di sé e ha trovato il coraggio di rischiare vita e sicurezza in nome
della libertà e della giustizia per tutti, di chi ha cercato la verità e
ha testimoniato, di chi non è stato connivente, di chi ha difeso la
dignità del suo mestiere, la salute della terra e la bellezza, di chi ha
resistito al miraggio della ricchezza a tutti costi e alle leggi del
mercato, di chi si è ostinato a non dimenticare e a fare del ricordo
insegnamento e slancio.
Racconto anche di chi non ci è riuscito,
cercando di capire perché. Altrimenti non si spezza il cerchio, non si
estingue la ferocia. Il teatro, luogo fisico e ideale dove si può essere
tutto e tutti, ha la porta sempre aperta.
Il progetto nel tempo
Questo progetto, nel quale si inseriscono di volta in volta diversi
spettacoli, è cominciato molti anni fa, quando, con tanto aiuto da parte
di tutti, fummo il motore della riapertura del Teatro Comunale di
Russi, dove la compagnia ha una delle sue sedi, dopo vent’anni di sonno.
Era l’ultimo arrivato: prima avevamo contribuito a restituire al
pubblico l’ex Macello, ora Biblioteca, la Chiesina in Albis, ora spazio
per mostre, Palazzo San Giacomo. Tornando in Romagna, dopo anni di
lavoro in giro per l’Italia, ho accumulato scritti, ricordi, ritratti
che sono diventati spettacoli e che, partendo dalla stessa radice, si
animano di racconti e personaggi diversi. Questo racconto mi accompagna
ovunque vada e si colora delle persone e dei paesaggi che incontro.
Per ‘Autobiografie di ignoti’ sono entrata in punta di piedi in un bar
dove si dissolve il confine tra notte e giorno, sogno e realtà, successo
e fallimento, e dove ho incontrato personaggi sospesi tra verità e
immaginazione che mi hanno rivelato quale luce si nasconda dietro
un’apparente, resistente ed orgogliosa sconfitta.
Per ‘Canti per
elefanti’ sono entrata in una ‘casa protetta’, dove ho incontrato
creature esiliate per vecchiaia, malattia mentale, malattia. Ne sono
uscita con un bagaglio di storie che mi hanno permesso di indagare la
sottile soglia oltre la quale si scivola in un mondo chiuso dove le
regole sono dettate da altri.
Per ‘In canto e in veglia’ ho abitato
la camera bianca dove si salutano le persone più care e ci si interroga
sulla morte, scoprendo che i riti del lutto non sempre sono vuote
superstizioni e trovando nelle foglie, in un ghiacciaio, nella sabbia,
una traccia delle voci perdute.
Per ‘Di terra e d’oro’ ho indagato
il concetto di lavoro e di come il desiderio di un guadagno sempre
maggiore abbia stravolto paesaggi e destini, distruggendo i delicati
equilibri tra il corso della natura e gli interventi dell’uomo, tra
armonia ed economia. Ho raccontato mestieri dimenticati che creavano
bellezza, sapienza e incontri, ho guardato con altri occhi le
trasformazioni delle città, dei mercati e della terra.
Gli spazi
Immagino una forma dello spazio duttile, che mi permetta di abitare
teatri grandi e piccoli, ma anche di dialogare con la natura e
trasformare in teatro luoghi che in apparenza non lo sono. Mi sono
trovata spesso ad essere ‘pioniera’, abitando per la prima volta con
musica e teatro luoghi come il Palazzo San Giacomo, il Mausoleo di
Teodorico a Ravenna, case di campagna, ruderi tra i Sassi di Matera, la
piazza de L’Aquila dopo il terremoto, palazzi, chiese, filande,
fabbriche abbandonate, vicoli e strade.