HEDDA GABLER

di Henrik Ibsen
progetto ed elaborazione drammaturgica Elena Bucci e Marco Sgrosso
regia Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso

con Elena Bucci, Maurizio Cardillo, Roberto Marinelli, Filippo Pagotto, Giovanna Randi, Marco Sgrosso, Elisabetta Vergani

disegno luci Maurizio Viani - costumi Ursula Patzak - assistente all'allestimento Francesco Ghiaccio - direttore tecnico e datore luci Loredana Oddone
CTB - Teatro Stabile di Brescia con la collaborazione di Le belle bandiere con il sostegno del Comune di Russi

debutto: 8 gennaio 2008, Teatro Sociale, Brescia
___

Piero Gobetti descrisse una volta il teatro di Ibsen come "l'itinerario dell'eroe in cerca del suo ambiente". Prima l'eroe ibseniano grida la sua originalità con un tono di voce troppo alto. Poi si fa discreto, scopre il silenzio, e raggiunge nel dramma la sua serenità e il suo equilibrio: "la tragedia non è più l'eccezione ma la vita di tutti i giorni". Allora i drammi della maturità ibseniana, diceva Gobetti, troveranno una "lucidità fantastica, quasi di sonnambulo che può dire parole fatali con indifferente serenità". Bisogna espiare "la retorica, la sopravvalutazione di se stessi". Bisogna che la satira del mondo borghese si raffini e che lo sdegno si faccia sereno. (Cesare Garboli, Roma 10 aprile 1975) 

Il rumore della folla mi spaventa... io non voglio trascinare la mia veste nel fango della vita, ma in abiti di festa aspettare il giorno dell'avvenire. (Henrik Ibsen)

Siamo in un ambiente apparentemente tranquillo, una grande villa allestita secondo i canoni del paradiso borghese: agi, comodità, fiori recisi, il pianoforte, una collezione di pistole, un grande ritratto del padre di Hedda, il generale Gabler.
Anche il paesaggio umano sembra confortante: una coppia appena sposata con un promettente futuro, una zia premurosa, un assiduo amico di famiglia, un uomo di genio che torna alla rispettabilità e al lavoro, dopo una vita dissipata, ispirato dalla dedizione di una donna. Ma nell'arco di tempo di due giorni, separati da una notte inquieta, scopriamo che niente è quello che appare nella fortezza che si fonda sulla solidità dei beni materiali e sull'uso di maschere e convenzioni, confidando che possano proteggere dalla paura, dai sentimenti, dalla noia, dalla morte. I soldi non bastano, l'amore non c'è o viene eluso, si scatenano invidie e rivalità, tornano a bruciare passioni che sembravano domate dalla ragionevolezza e dal buon senso.
Per ben due volte risuona la battuta 'queste cose non si fanno': non si dà scandalo, non si dice la verità, non si vive secondo il proprio sentire, non si incrina l'immagine del decoro, non ci si suicida, non si muore.
Lo spazio scenico cerca di fare sua la spietata sincerità del teatro: non c'è nessuno degli oggetti nominati, nessuna villa, nessun salotto. Ci sono otto sedie e, disegnati a terra, forme di quadrati concentrici che diventano labirinti, schemi di gioco, traiettorie per pedine, corridoi spalancati su un esterno che non si ha la forza di affrontare.
In questo olimpo per dèi mortali non si fa che attendere una soddisfazione futura, e nella noia spesso dichiarata che procura questa attesa sotto anestesia e senza gusto, la vitalità si rifugia nel gioco del 'parlare', distillato in partite crudeli che misurano il potere di uno sull'altro, secondo un codice raffinato ed ipocrita.
I dialoghi, spesso a due, a volte a tre, quasi includessero a tratti un arbitro mai imparziale, sembrano svolgersi in una casa trasformata in elegante ring.
Questi personaggi, così vicini per immagine e modi alle vecchie fotografie dei nostri album, rivelano nel duello una dimensione che li avvicina per un attimo ai miti delle grandi tragedie o dei racconti popolari, ma si ritraggono poi nel momento dell'azione decisiva che li trasformerebbe, se non in eroi, almeno in protagonisti della loro stessa vita.
Si vorrebbe allora vederli da bambini, per scoprire in quali intrecci del destino si siano persi i loro sogni.
Siamo immersi in una moderna tragedia commedia per non eroi, ma Ibsen, con intelligenza, consapevolezza ed ironia, riesce con grazia a farci sorridere, proprio mentre ci rivela che questa grande villa dove non c'è posto per la vita e non c'è posto per la morte, pur immaginata nel 1890, è ancora la nostra.