di Elena Bucci
scritto per il convegno "Le Buone Pratiche del teatro", V edizione, Milano, 13 dicembre 2008
Ho sempre seguito con molto interesse ‘Le buone pratiche’. Il fatto stesso che esista questo appuntamento e che abbia questi fini, mi fa pensare all’esistenza di un vero e proprio ‘movimento’ che raccoglie insofferenze, delusioni, progetti, invenzioni e domande di molte persone che si dedicano al teatro e che hanno assistito e partecipato agli eventi tanto precisamente descritti. Dal mio punto di vista, partecipare con uno scritto è un controsenso, che ho proposto soltanto come ennesima necessaria mediazione al fine di mantenere in vita una compagnia che, nella giornata di oggi, è in replica a Cosenza.
Infatti sono sempre più convinta che una vera rivoluzione per una maggior salute del teatro possa avvenire soltanto attraverso il contatto diretto tra le persone e un’adeguata lucidatura delle parole che spesso significano cose troppo diverse per ognuno di noi, nascondendo la verità che tutti sappiamo e che quasi mai abbiamo il coraggio di affermare in luoghi pubblici e risonanti. Nell’epoca del consenso obbligatorio per paura e/o apparente necessità di sopravvivenza, credo che avremmo invece bisogno di tornare a fidarci di noi, del nostro mestiere e della nostra capacità di solidarietà non soltanto per essere d’accordo, ma soprattutto per tornare a discutere, litigare, creare, inventare, sovvertire, prendere in giro, capovolgere, irritare, divertire. So bene che questo tipo di complicità si ottiene anche attraverso la conoscenza diretta, il lavoro insieme, la vicinanza. Eppure non ci sono. I sabati di febbraio sono preziosi per le compagnie.
Ancora una volta gli impedimenti del mestiere si traducono in riflessione e creazione di sistemi di resistenza e produzione. Il contatto con gli elementi più concreti ci costringe quasi sempre a risoluzioni dove l’etica si accompagna alla salvaguardia della poetica: come contrastare il divieto di piantare un chiodo in palcoscenico, che, avallato da poteri che distolgono lo sguardo per evitare contrasti, ci obbligherebbe a rinunciare al diritto acquisito nel tempo di essere padroni del teatro nel momento in cui si deve andare in scena, liberi di usare il patrimonio della tradizione per poter fare il nostro lavoro al meglio.
Scriverò quindi di minuzie che significano per me molte cose, come accade a volte per i segni teatrali, immaginando di parlarvi.
Mi aiuto proponendovi prima qualche frase di Copeau che mi ha colpito per vicinanza e che ho passato a tutta la mia compagnia:
«Capitemi bene. Non sostengo la causa di un teatro ascetico, sotto una campana di vetro riservato a pochi eletti. No. Credo che la nostra arte non attinga e non renda le sue virtù se non a contatto col grande pubblico e che non sbocci se non in una forma che possa chiamarsi popolare. Ma io tengo presente la situazione in cui si trova oggi l’arte drammatica. Non è del tutto normale. Non ha nulla di uno sboccio. Siamo certamente d’accordo nel riconoscere che questa arte è malata, o almeno, profondamente sottoposta a un travaglio di influssi, turbata da conflitti. Non voglio indagare se questa malattia dipenda dallo stato sociale e se gli sforzi di qualche artista, nell’intento di scongiurarla, siano soltanto irrisorie droghe, mi limito a dire che i nostri piccoli teatri trovano la loro ragione di essere in funzione di uno stato di crisi e dei problemi che gli sono connessi, in funzione dell’esame, della conoscenza e della soluzione di quei problemi; dico che gli stessi piccoli teatri sono altrettanti problemi, che la loro esistenza non va da sé, che il loro compito è tutt’altro che pacifico, che non possono nello stesso tempo differenziarsi dagli altri teatri nell’essenza e somigliare ad essi nel regime, e che debbono quotidianamente preoccuparsi di metodi e di espedienti per mettere le condizioni del loro esistere in armonia con la particolare natura della missione in cui, agli occhi di tutti, sono investiti.
Si può ben dire che teatri, la cui parola d’ordine è lavoro, ricerca, audacia, non sono stati fondati per prosperare ma per resistere senza asservirsi, il che è ben diverso, e che rientrava molto meno nei loro programmi il successo che la lotta, la ricerca della lotta e della contraddizione. Ora si applaude al nostro successo. Ma se dovesse disertarci un solo giorno, c’è qualcuno che si preoccupa di difendere la nostra esistenza?
Far fronte alla richiesta quotidiana, va bene. Ma a che scopo sopravvivere se costa il sacrificio e il dispregio di quanto di più personale e di più nuovo si aveva da dire? Transigere col pubblico, d’accordo. Ricevere da lui la lezione che esso dà, niente di meglio. Ma, da questo scambio continuo, da questa quotidiana avventura della rappresentazione, capite bene che ci vengono degli spunti, delle scoperte, delle sorprese, degli inviti a rinnovarci, mille domande che si pongono, qualche risposta intravista, tutto un mondo di velleità interne e di speranza creatrice di cui voglio ammettere che, sotto la pressione della vita, nella fretta, nella fatica, nell’angoscia, nel disordine e nell’approssimativo, qualche cosa vada ad alimentare di giorno in giorno il nostro forzato lavoro, ma che darebbero frutti più ricchi e più belli se fossero maturati nella riflessione e raccolti con agio. Un’industria non può fare a meno del laboratorio. È chiaro che un cervello non fa i suoi calcoli in mezzo alle macchine. La pratica vale quel che vale. Se si deforma sta alla teoria di rettificarla. Solo la scena fa l’attore, come fa l’autore. Ma li distrugge anche.» (Jacques Copeau ‘Ricordi’ a cura di Alessandro Gentili con un intervento di Fabrizio Cruciani ed. Mobydick, 2004 - trascrizione di due conferenze tenute al Vieux Colombier il 10 e 15 gennaio 1931)
Non ho molto da offrire se non la mia esperienza. Ho fondato con Marco Sgrosso la mia compagnia, Le belle bandiere, attivando subito diverse vie di esistenza: la produzione di spettacoli, l’organizzazione di rassegne (con relativa ricerca di spazi, denaro e adeguamento degli spazi stessi), la creazione di un laboratorio permanente (cercando di attivare il comune di residenza della compagnia perché finanziasse il laboratorio al di là dei contributi individuali nel momento in cui si cominciava ad andare in scena continuativamente) e la definizione in contemporanea di una compagnia allargata (visto che non siamo in grado di garantire in modo continuativo e a tutti la sopravvivenza) che di volta in volta si potesse riunire intorno a progetti diversi, lasciando la più ampia libertà morale di creare progetti autonomi e di partecipare a lavori di altri artisti, secondo una logica di continuo arricchimento e di continua apertura.
Abbiamo tentato di riportare in vita un teatro in Romagna, pur senza avere mai avuto la possibilità di gestirvi un progetto continuativo, ma continuando a sognare un luogo che raccogliesse la ricchezza generata da progetti molteplici e multidirezionali, dalla formazione nelle scuole agli spettacoli di risonanza nazionale, ai sempre più allargati progetti di comunicazione tra artisti provenienti da diverse discipline.
Possiamo dirci senz’altro una compagnia indipendente, anche se siamo stati sostenuti dal Comune di Russi con piccolissimi interventi economici ed artigianali e disordinati aiuti di vario genere, dall’uso di spazi alla stampa dei fogli di sala, dalla Regione Emilia-Romagna e Provincia di Ravenna con buona continuità e attenzione attraverso la legge 13, dal Teatro degli Incamminati e dal Teatro Metastasio di Prato attraverso la produzione di spettacoli e ora dal Centro Teatrale Bresciano, che ha abbracciato molta parte della progettualità della compagnia.
Di volta in volta cerchiamo collaborazioni con altri artisti, con altre compagnie e con altri Enti. La nostra natura e la nostra formazione ci hanno sempre portato a privilegiare la produzione artistica, che per noi ha sempre un deciso riflesso etico, su tutti gli altri aspetti del nostro lavoro. Questo atteggiamento ci ha reso sì indipendenti e ci ha permesso di creare i più svariati progetti, ma ci ha anche forzatamente allenato ad acrobazie economiche ed organizzative: siamo quindi una compagnia leggerissima, quasi priva di ufficio ma dotata di variegate e molteplici collaborazioni.
Pur circuitando su tutto il territorio nazionale e pur dando lavoro a molte persone non abbiamo alcuna garanzia di continuità, pur avendo spesso a disposizione il teatro di Russi per le prove non abbiamo alcun diritto sulla gestione dello stesso, pur essendo i direttori artistici della compagnia non disdegniamo di svolgere le più piccole e minute mansioni pratiche. Siamo un controsenso che ha ben funzionato fino a questo momento, visto che, dotati di buona salute, abbiamo pagato con un lavoro continuo e di varia natura tutta la libertà che abbiamo potuto comprare, cercando di comprendere sempre, nel nostro vagare assecondando curiosità e necessità, dove mai fossimo capitati.
Lo stessa tensione ad autonomia, consapevolezza e sorveglianza per la qualità abbiamo cercato di trasmetterla agli attori, ai tecnici e agli altri collaboratori che lavorano con noi. Tutto bene quindi?
Certo che no. Non ci sfugge certo che anche un’influenza può compromettere questo delicato meccanismo. Nemmeno ci sfugge che una macchina di produzione che funziona anche con budget minimi pur mantenendo alto il livello di professionalità può diventare uno strumento facile da sfruttare e da manipolare, fino alla consunzione della compagnia stessa. Sappiamo bene quanto siano importanti le repliche, il denaro e la possibilità di produrre, ma sappiamo anche quanto sia ormai difficile garantire a chi lavora con noi i livelli minimi di rispetto e di qualità del lavoro.
L’imbarbarimento e l’ignoranza a volte proterva che ne deriva ci mettono spesso in condizione di risolvere, in quanto responsabili di fronte al pubblico della qualità del nostro lavoro, innumerevoli microinadempienze che rimangono nascoste tra le ombre di moltissimi ignoti o troppo noti scaricabarile.
Allo stesso tempo rifiuto con tutta me stessa di piombare nell’abitudine al lamento, che pure avrebbe ragione d’essere.
Il mio contributo, del tutto inutile per il momento ai fini pratici, è tutto qui, nella mia esistenza. Credo nelle persone, credo nella capacità di trasformazione che offre l’arte teatrale, credo nel talento, resisto alle scivolate della stanchezza, resisto all’omologazione, resisto alla negazione di quanto nell’arte e nella cultura da senso alla vita, credo alla possibilità di dire no a quanto ci fa vergognare e a quanto ci umilia.
Sono assolutamente convinta, come meglio di me avete scritto, che sia necessario riacquistare un aperto atteggiamento di indipendenza, che ci metta in condizioni di dialogare con l’esistente senza esserne schiacciati ed estromessi, ma nemmeno mutati fino a renderci irriconoscibili a noi stessi.
Credo che, a poco a poco, per andare incontro alle esigenze di un mondo sempre più lontano dalle anacronistiche pratiche teatrali, si siano andate modificando le più intrinseche modalità di lavoro, fino ad arrivare all’assurdo degli orari di alcuni stabili: 9-13 e 15-17. Orari da ufficio appunto. La stessa cosa, a livello più profondo, si è attuata nei confronti del potere economico, politico e culturale. Le amicizie fondate sui progetti sono diventate connivenze di potere, come le affinità culturali sono diventate una base per alleanze obbligatorie, a prescindere dalle auspicabili diversità delle poetiche, il credo politico è diventato strumento di mercato per bandi, residenze, direzioni artistiche.
Faticando ad essere ‘specchio del mondo’ e avendo sbiadito il sogno utopico di cambiarlo, potremmo forse riflettere su come cominciare da noi e cambiare alcuni comportamenti che ci rendono sempre più deboli e poco credibili.
Non credo che si debbano inseguire modalità che non appartengono al teatro ma anzi, difendere fino in fondo quello che nel teatro amiamo: il silenzio, il lungo tempo necessario, la sintesi, l’essenzialità, il rischio della prova dal vivo, l’anacronismo, l’incontro, l’unicità di ogni persona, la singolarità dei metodi e dei non metodi, la capacità sovversiva e quella di trasformazione, la provocazione, la ricerca dell’autentico.
Accettare di modificare troppo profondamente le vie di creazione e di produzione proprie del teatro significa obbligare tutti gli altri, nel tempo presente e futuro, ad asservirsi a logiche estranee che non possono che distruggere l’essenza che si cerca di preservare con un compromesso troppo generoso. Significa anche avere la presunzione di poter controllare forze che dipendono da noi soltanto in parte e che siamo chiamati a trasmettere trasformate in arte e non a comandare.
Infatti sono sempre più convinta che una vera rivoluzione per una maggior salute del teatro possa avvenire soltanto attraverso il contatto diretto tra le persone e un’adeguata lucidatura delle parole che spesso significano cose troppo diverse per ognuno di noi, nascondendo la verità che tutti sappiamo e che quasi mai abbiamo il coraggio di affermare in luoghi pubblici e risonanti. Nell’epoca del consenso obbligatorio per paura e/o apparente necessità di sopravvivenza, credo che avremmo invece bisogno di tornare a fidarci di noi, del nostro mestiere e della nostra capacità di solidarietà non soltanto per essere d’accordo, ma soprattutto per tornare a discutere, litigare, creare, inventare, sovvertire, prendere in giro, capovolgere, irritare, divertire. So bene che questo tipo di complicità si ottiene anche attraverso la conoscenza diretta, il lavoro insieme, la vicinanza. Eppure non ci sono. I sabati di febbraio sono preziosi per le compagnie.
Ancora una volta gli impedimenti del mestiere si traducono in riflessione e creazione di sistemi di resistenza e produzione. Il contatto con gli elementi più concreti ci costringe quasi sempre a risoluzioni dove l’etica si accompagna alla salvaguardia della poetica: come contrastare il divieto di piantare un chiodo in palcoscenico, che, avallato da poteri che distolgono lo sguardo per evitare contrasti, ci obbligherebbe a rinunciare al diritto acquisito nel tempo di essere padroni del teatro nel momento in cui si deve andare in scena, liberi di usare il patrimonio della tradizione per poter fare il nostro lavoro al meglio.
Scriverò quindi di minuzie che significano per me molte cose, come accade a volte per i segni teatrali, immaginando di parlarvi.
Mi aiuto proponendovi prima qualche frase di Copeau che mi ha colpito per vicinanza e che ho passato a tutta la mia compagnia:
«Capitemi bene. Non sostengo la causa di un teatro ascetico, sotto una campana di vetro riservato a pochi eletti. No. Credo che la nostra arte non attinga e non renda le sue virtù se non a contatto col grande pubblico e che non sbocci se non in una forma che possa chiamarsi popolare. Ma io tengo presente la situazione in cui si trova oggi l’arte drammatica. Non è del tutto normale. Non ha nulla di uno sboccio. Siamo certamente d’accordo nel riconoscere che questa arte è malata, o almeno, profondamente sottoposta a un travaglio di influssi, turbata da conflitti. Non voglio indagare se questa malattia dipenda dallo stato sociale e se gli sforzi di qualche artista, nell’intento di scongiurarla, siano soltanto irrisorie droghe, mi limito a dire che i nostri piccoli teatri trovano la loro ragione di essere in funzione di uno stato di crisi e dei problemi che gli sono connessi, in funzione dell’esame, della conoscenza e della soluzione di quei problemi; dico che gli stessi piccoli teatri sono altrettanti problemi, che la loro esistenza non va da sé, che il loro compito è tutt’altro che pacifico, che non possono nello stesso tempo differenziarsi dagli altri teatri nell’essenza e somigliare ad essi nel regime, e che debbono quotidianamente preoccuparsi di metodi e di espedienti per mettere le condizioni del loro esistere in armonia con la particolare natura della missione in cui, agli occhi di tutti, sono investiti.
Si può ben dire che teatri, la cui parola d’ordine è lavoro, ricerca, audacia, non sono stati fondati per prosperare ma per resistere senza asservirsi, il che è ben diverso, e che rientrava molto meno nei loro programmi il successo che la lotta, la ricerca della lotta e della contraddizione. Ora si applaude al nostro successo. Ma se dovesse disertarci un solo giorno, c’è qualcuno che si preoccupa di difendere la nostra esistenza?
Far fronte alla richiesta quotidiana, va bene. Ma a che scopo sopravvivere se costa il sacrificio e il dispregio di quanto di più personale e di più nuovo si aveva da dire? Transigere col pubblico, d’accordo. Ricevere da lui la lezione che esso dà, niente di meglio. Ma, da questo scambio continuo, da questa quotidiana avventura della rappresentazione, capite bene che ci vengono degli spunti, delle scoperte, delle sorprese, degli inviti a rinnovarci, mille domande che si pongono, qualche risposta intravista, tutto un mondo di velleità interne e di speranza creatrice di cui voglio ammettere che, sotto la pressione della vita, nella fretta, nella fatica, nell’angoscia, nel disordine e nell’approssimativo, qualche cosa vada ad alimentare di giorno in giorno il nostro forzato lavoro, ma che darebbero frutti più ricchi e più belli se fossero maturati nella riflessione e raccolti con agio. Un’industria non può fare a meno del laboratorio. È chiaro che un cervello non fa i suoi calcoli in mezzo alle macchine. La pratica vale quel che vale. Se si deforma sta alla teoria di rettificarla. Solo la scena fa l’attore, come fa l’autore. Ma li distrugge anche.» (Jacques Copeau ‘Ricordi’ a cura di Alessandro Gentili con un intervento di Fabrizio Cruciani ed. Mobydick, 2004 - trascrizione di due conferenze tenute al Vieux Colombier il 10 e 15 gennaio 1931)
Non ho molto da offrire se non la mia esperienza. Ho fondato con Marco Sgrosso la mia compagnia, Le belle bandiere, attivando subito diverse vie di esistenza: la produzione di spettacoli, l’organizzazione di rassegne (con relativa ricerca di spazi, denaro e adeguamento degli spazi stessi), la creazione di un laboratorio permanente (cercando di attivare il comune di residenza della compagnia perché finanziasse il laboratorio al di là dei contributi individuali nel momento in cui si cominciava ad andare in scena continuativamente) e la definizione in contemporanea di una compagnia allargata (visto che non siamo in grado di garantire in modo continuativo e a tutti la sopravvivenza) che di volta in volta si potesse riunire intorno a progetti diversi, lasciando la più ampia libertà morale di creare progetti autonomi e di partecipare a lavori di altri artisti, secondo una logica di continuo arricchimento e di continua apertura.
Abbiamo tentato di riportare in vita un teatro in Romagna, pur senza avere mai avuto la possibilità di gestirvi un progetto continuativo, ma continuando a sognare un luogo che raccogliesse la ricchezza generata da progetti molteplici e multidirezionali, dalla formazione nelle scuole agli spettacoli di risonanza nazionale, ai sempre più allargati progetti di comunicazione tra artisti provenienti da diverse discipline.
Possiamo dirci senz’altro una compagnia indipendente, anche se siamo stati sostenuti dal Comune di Russi con piccolissimi interventi economici ed artigianali e disordinati aiuti di vario genere, dall’uso di spazi alla stampa dei fogli di sala, dalla Regione Emilia-Romagna e Provincia di Ravenna con buona continuità e attenzione attraverso la legge 13, dal Teatro degli Incamminati e dal Teatro Metastasio di Prato attraverso la produzione di spettacoli e ora dal Centro Teatrale Bresciano, che ha abbracciato molta parte della progettualità della compagnia.
Di volta in volta cerchiamo collaborazioni con altri artisti, con altre compagnie e con altri Enti. La nostra natura e la nostra formazione ci hanno sempre portato a privilegiare la produzione artistica, che per noi ha sempre un deciso riflesso etico, su tutti gli altri aspetti del nostro lavoro. Questo atteggiamento ci ha reso sì indipendenti e ci ha permesso di creare i più svariati progetti, ma ci ha anche forzatamente allenato ad acrobazie economiche ed organizzative: siamo quindi una compagnia leggerissima, quasi priva di ufficio ma dotata di variegate e molteplici collaborazioni.
Pur circuitando su tutto il territorio nazionale e pur dando lavoro a molte persone non abbiamo alcuna garanzia di continuità, pur avendo spesso a disposizione il teatro di Russi per le prove non abbiamo alcun diritto sulla gestione dello stesso, pur essendo i direttori artistici della compagnia non disdegniamo di svolgere le più piccole e minute mansioni pratiche. Siamo un controsenso che ha ben funzionato fino a questo momento, visto che, dotati di buona salute, abbiamo pagato con un lavoro continuo e di varia natura tutta la libertà che abbiamo potuto comprare, cercando di comprendere sempre, nel nostro vagare assecondando curiosità e necessità, dove mai fossimo capitati.
Lo stessa tensione ad autonomia, consapevolezza e sorveglianza per la qualità abbiamo cercato di trasmetterla agli attori, ai tecnici e agli altri collaboratori che lavorano con noi. Tutto bene quindi?
Certo che no. Non ci sfugge certo che anche un’influenza può compromettere questo delicato meccanismo. Nemmeno ci sfugge che una macchina di produzione che funziona anche con budget minimi pur mantenendo alto il livello di professionalità può diventare uno strumento facile da sfruttare e da manipolare, fino alla consunzione della compagnia stessa. Sappiamo bene quanto siano importanti le repliche, il denaro e la possibilità di produrre, ma sappiamo anche quanto sia ormai difficile garantire a chi lavora con noi i livelli minimi di rispetto e di qualità del lavoro.
L’imbarbarimento e l’ignoranza a volte proterva che ne deriva ci mettono spesso in condizione di risolvere, in quanto responsabili di fronte al pubblico della qualità del nostro lavoro, innumerevoli microinadempienze che rimangono nascoste tra le ombre di moltissimi ignoti o troppo noti scaricabarile.
Allo stesso tempo rifiuto con tutta me stessa di piombare nell’abitudine al lamento, che pure avrebbe ragione d’essere.
Il mio contributo, del tutto inutile per il momento ai fini pratici, è tutto qui, nella mia esistenza. Credo nelle persone, credo nella capacità di trasformazione che offre l’arte teatrale, credo nel talento, resisto alle scivolate della stanchezza, resisto all’omologazione, resisto alla negazione di quanto nell’arte e nella cultura da senso alla vita, credo alla possibilità di dire no a quanto ci fa vergognare e a quanto ci umilia.
Sono assolutamente convinta, come meglio di me avete scritto, che sia necessario riacquistare un aperto atteggiamento di indipendenza, che ci metta in condizioni di dialogare con l’esistente senza esserne schiacciati ed estromessi, ma nemmeno mutati fino a renderci irriconoscibili a noi stessi.
Credo che, a poco a poco, per andare incontro alle esigenze di un mondo sempre più lontano dalle anacronistiche pratiche teatrali, si siano andate modificando le più intrinseche modalità di lavoro, fino ad arrivare all’assurdo degli orari di alcuni stabili: 9-13 e 15-17. Orari da ufficio appunto. La stessa cosa, a livello più profondo, si è attuata nei confronti del potere economico, politico e culturale. Le amicizie fondate sui progetti sono diventate connivenze di potere, come le affinità culturali sono diventate una base per alleanze obbligatorie, a prescindere dalle auspicabili diversità delle poetiche, il credo politico è diventato strumento di mercato per bandi, residenze, direzioni artistiche.
Faticando ad essere ‘specchio del mondo’ e avendo sbiadito il sogno utopico di cambiarlo, potremmo forse riflettere su come cominciare da noi e cambiare alcuni comportamenti che ci rendono sempre più deboli e poco credibili.
Non credo che si debbano inseguire modalità che non appartengono al teatro ma anzi, difendere fino in fondo quello che nel teatro amiamo: il silenzio, il lungo tempo necessario, la sintesi, l’essenzialità, il rischio della prova dal vivo, l’anacronismo, l’incontro, l’unicità di ogni persona, la singolarità dei metodi e dei non metodi, la capacità sovversiva e quella di trasformazione, la provocazione, la ricerca dell’autentico.
Accettare di modificare troppo profondamente le vie di creazione e di produzione proprie del teatro significa obbligare tutti gli altri, nel tempo presente e futuro, ad asservirsi a logiche estranee che non possono che distruggere l’essenza che si cerca di preservare con un compromesso troppo generoso. Significa anche avere la presunzione di poter controllare forze che dipendono da noi soltanto in parte e che siamo chiamati a trasmettere trasformate in arte e non a comandare.