Due scritti per “Non sentire il male”

LA PRIMA VERSIONE DI “NON SENTIRE IL MALE” A PALAZZO SAN GIACOMO - APRILE 2000
OVVERO VIAGGIO AGLI INFERI O DELLA PROFONDITÀ

… nel mezzo del cammin di nostra vita…

Quando ho cominciato questo lavoro di ricerca intorno ad Eleonora Duse, ero appena uscita dalla compagnia del mio maestro Leo de Berardinis. Era per me più di una compagnia, era stata una scuola, una famiglia, era stata l’occasione per essere proiettata nel mondo del teatro nazionale e internazionale guidata da una delle menti più originali e libere, e allo stesso tempo rigorose, che abbia mai incontrato.
Subito dopo la scuola, dopo un’esperienza di cooperativa con i miei compagni, lo avevo incontrato quasi per caso e scoprii subito quanto il teatro fosse, anche per me, come vedevo in lui, intrecciato alla vita. La compagnia divenne una palestra, un rifugio e un rischio continuo. Imparai a confrontarmi con i miei limiti, con le visioni, le speranze e le possibilità. Compresi quanto la tecnica non sia altro che uno strumento per potere esprimere con libertà e naturalezza le proprie intuizioni creative, la propria visione del mondo. Attraversavo infiniti, impercettibili mutamenti e dall’entusiasmo incondizionato dei primi anni, passai ad una sorta di insoddisfazione che mi portò a delineare un nuovo destino: fondai con Marco la mia compagnia nel 91 (legalmente nel 93) e cominciammo a creare spettacoli basati su scritture originali. Leo appoggiò la nuova strada che si affiancava all’antico percorso di interpreti arrivando sino a portare il giro il nostro spettacolo e quello di Francesca insieme al suo studio solitario intorno ad Otello. Era allo stesso tempo fiero della nostra autonomia e guardingo. Ora capisco perché mi incitava a non dedicare troppo tempo ai laboratori: aveva già intuito quanto la mia dedizione alla formazione di non professionisti potesse da un lato pregiudicare la mia forza creativa dall’altro accrescere un’autonomia che fatalmente ci avrebbe allontanato. Voleva che fossi autrice e autonoma e lo temeva. Allo stesso tempo oggi trovo naturale la sua gelosia, la stessa che provavo io quando lo vedevo dirigere altri attori. Sapevamo che era naturale che si arrivasse al distacco, ma il rapporto profondo che ci legava e che non riusciva ad esprimersi né a gesti né a parole, ma soltanto attraverso il teatro, ci rendeva difficile una separazione armonica. Ci furono discussioni, ombrosità, incomprensioni che furono risolte molto presto ma che mi portarono ad allontanarmi con decisione da lui e da tutti i miei compagni. Nella mia terra, nel palazzo di San Giacomo abbandonato e da noi ritrovato, nel silenzio della campagna, cercavo chi io fossi, senza l’ombra forte di un maestro padre che mi guidava.
In fondo, dopo essere fuggita dalla Romagna e dalla mia famiglia di insegnanti che non avrebbero mai immaginato che la loro figlia bravissima a scuola diventasse un’attrice, ecco che ritornavo, per curarmi ancora una volta, con il teatro.
Mentre vivevo questo lutto, pur continuando ad occuparmi di tutti i progetti e gli spettacoli della mia compagnia, Le belle bandiere, mi interrogavo su quale fosse l’argomento giusto di studio .
Un amico più adulto di me, intelligente e intuitivo, mi consigliò di dedicarmi ad uno studio originale intorno ad Eleonora Duse, che affascinò anche Leo al punto che citò la sua solitudine innovativa nel suo assolo, L’uomo capovolto, una sorta di rito illuminato soltanto da candele.
All’improvviso ricordai quanto mi aveva appassionato la lettura delle lettere di Eleonora, pubblicate in un volumone, snobbato dalla critica ma utilissimo a me, che avevo trovato fra il libri della mia benefattrice e grande amica Lucia Ferrati, che mi aveva accolto nella sua casa di Bologna.
Si erano impresse nella memoria più di quanto non fossi consapevole e ora, che guardavo la mia breve storia, immaginai che Eleonora Duse fosse la mia guida verso il futuro, lei, così coraggiosa, forte, fragile, appassionata, ribelle, innovativa, contraddittoria, strana, nuova e antica.
Da un lato mi ricordava la forza sotterranea e inalterabile delle donne della mia terra, dall’altro evocava mondi affascinanti, eleganti, elitari. Lei era riuscita a restare autentica anche nel turbine di un successo enorme, tra le lusinghe e tra gli insulti.
Era stata capocomica, libera e coraggiosa.
Anche Leo era stato stregato dalla forza innovativa di Duse, dalla sua solitudine, nella quale forse si ritrovava, dalla sua dedizione al teatro come strumento privilegiato di comunicazione con il mondo, come passaggio di quei sentimenti amorosi verso le persone e il mondo che altrimenti non riuscirebbero ad esprimersi compiutamente. Ma la mia fascinazione, in questo caso, come andavo scoprendo, non nasceva da quella del mio maestro. Veniva dagli anni della Scuola di teatro di Bologna, dalle mie letture, dalla suggestione intensa di quei primi anni nei quali, complici gli studi universitari, finalmente uscivo dalla realtà di paese e di provincia per trovarmi nella accogliente e controversa Bologna, città con dolcezze da paese, paese con crudeltà da città, ambiziosa e democratica, provinciale e all’avanguardia.
Nasceva quando condividevo pensieri, amicizia e casa con Lucia Ferrati, che aveva una biblioteca straordinaria per quanto riguardava la nostra Duse. Ho cominciato a leggere le lettere, le biografie, i pensieri, ho sentito subito crescere la mia empatia e la mia simpatia verso questa donna che troppo spesso veniva identificata come eroina di un teatro ormai sorpassato e come musa e amante di Gabriele D’Annunzio. Ricordo che ai laboratori meravigliosi di trasmissione delle esperienze teatrali voluti da Gerardo Guccini al DAMS, molti non sapevano nemmeno chi fosse.
Non avrei mai immaginato che questo studio avrebbe avuto una vita tanto lunga, amplificata da radio e tv.
Ho cominciato a raccogliere tutti i testi intorno ad Eleonora, sia quelli di grande levatura come quelli di Mirella Schino, Cesare Molinari e altri, sia quelli di minor peso critico e intellettuale, ma per me molto utili, come quelli dei contemporanei, spesso agiografici e parziali, ma ricchi di particolari e dettagli che hanno alimentato la mia immaginazione.
Ho immagazzinato tutte le lettere, gli scritti, le testimonianze che ho potuto trovare e le ho lette e analizzate con tutto l’ascolto possibile, cercando di immedesimarmi quasi medianicamente in lei.
Ricordo notti lunghe in pianto, quando arrivavo a comprendere la sua solitudine inevitabile.
Cominciai a ristudiare e a riscoprire la storia, le modalità, i meccanismi del teatro prima dell’avvento del cinema e della televisione, entrai nelle vite e nelle carriere di attori straordinari troppo presto e inspiegabilmente dimenticati e archiviati come antichi e polverosi, nonostante molti di essi siano stati creatori innovativi e coraggiosi, come la stessa Duse, spesso identificata come ‘donna in posa di dolore’, musa fluttuante e aerea e non come donna energica che ha saputo tenere in mano tutti i complicati fili del nostro mestiere, da artista, da regista, da capocomica.
Sono andata indietro fino a ritrovare quanto ci lega ancora alla misteriosa tradizione della commedia dell’arte, con la sua libertà rigorosa, il rispetto del talento, la crudeltà del confronto senza rete con il pubblico, il rispetto della maestria, la necessità di creare artisti che fossero anche autori, cantanti, danzatori, conoscitori della vita pubblica e politica, comici e tragici.
Ricordo quei giorni come una vertigine, come un’illuminazione. Avevo già partecipato a progetti importanti, a tutti i geniali spettacoli di Leo, dal primo Amleto al Ritorno di Scaramouche, dove ero stata celebrata come maschera della Morte, ma ora quelle esperienze trovavano un filo intorno al quale ordinarsi e un vettore verso il futuro.
Riprendevo coraggio dopo l’abbandono, proprio come quando finisce un grande amore. 
Mi ritrovavo ricca come artista e povera come persona, quasi fossi rimasta indietro nel tempo della vita, chiusa com’ero nel teatro.
Il percorso nella storia degli altri era una luce sulla mia storia sghemba.
Capivo profondamente la lezione di Leo che prevedeva l’innesto della più libera e selvaggia innovazione nel percorso della tradizione, capivo il teatro di ricerca popolare aperto a tutte le età, i censi, le culture, le razze. Era proprio quello che tentavo di fare in quel paese non sempre pronto. Facevo le prove con le mie forze e misuravo sogni e pensieri con il reale, imparando quanto l’umiltà e il desiderio di conoscenza non bastino mai, incalzati come sono dal bisogno di creare ricette, sistemi, metodi sempre validi. La mia arte mi insegna che non devo mai dare nulla per scontato, che devo individuare come nemici i pregiudizi, le certezze, le idee, per quanto meravigliose, ma infide se non confrontate con la materia.
Individuare come luogo il Palazzo di San Giacomo è stato per me fondamentale come pensiero drammaturgico: ho immaginato un percorso fisico di stanze che è diventato anche un percorso all’interno della biografia personale e artistica di Duse fino ad arrivare ad un nodo per me fondamentale, il momento della sua sostituzione – momento temuto da ogni attrice – con un attrice più giovane, Irma Gramatica, nell’opera La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio, impaziente nei confronti della sua malattia e dei suoi ritardi.
Ho chiesto al mio amico pittore e scenografo Carluccio Rossi di creare gli elementi di scena. Mi ha proposto una serie di bozzetti, le stanze appunto. Sono apparsi un tavolino scrittoio, un divano, dei teli dipinti, una stanza finale con un tappeto di plastica nera che si allagava diventando una città sotto la pioggia di notte con, alle mie spalle un telo nero pieno di piccoli buchi che, illuminandosi, sembravano lontanissime luci. L’immagine era di una solitudine totale. Fu lui ad accompagnarmi in scena con la chitarra.
Chiesi a Loredana Oddone di occuparsi delle luci: costruì un sistema ingegnoso per potermi seguire con la consolle camminando in mezzo al pubblico di stanza in stanza. Con la sua geniale sensibilità, molto difficile da descrivere a parole, creò con pochissimi mezzi un ambiente magico e misterioso.
Nico Carrieri fu il primo fonico e fu lui ad effettuare nel Palazzo stesso, con mezzi rudimentali, le prime registrazioni della mia voce, che si sovrappone a tratti alle parole dal vivo, come un’anima contro l’altra: sono ancora quelle che utilizzo, trasportate su altri supporti.
La scelta delle musiche fu mia: scelsi musiche e autori poi diventati anche troppo famosi nel tempo, ma non li ho mai abbandonati, pur nelle elaborazioni successive avvenute attraverso la partecipazione dei musicisti compositori Andrea Agostini e Dimitri Sillato e con l’apporto decisivo dei suoni elettronici e delle elaborazioni di Raffaele Bassetti.
Gaetano Colella, attore oggi autore e drammaturgo, mi seguì in ogni parte della realizzazione. Aveva fatto parte del numeroso gruppo che incontrai attraverso i corsi di trasmissione di esperienze teatrali all’interno del già citato CIMES dell’università di Bologna creato da Guccini per ovviare alla mancanza di esperienza pratica di teatro all’interno del DAMS. il corso, in via sperimentale e per via della ricchezza dell’esperienza e della qualità delle prove aperte ebbe la durata di tre anni e si concluse con uno spettacolo su Shakespeare all’Arena del Sole. Mi pareva che Gaetano avesse talento e volontà e lo portai con me, come lui desiderava. Lui mi assecondò con molto impegno e dedizione. I fatti mi hanno dato ragione.
Chiesi ad Ursula Patzak – oggi famosa e vincitrice di diversi Nastri d’Argento – di illuminarmi sui costumi. Per me l’abito è davvero un secondo corpo e Ursula lo sa. Riesce sempre a costruire un’immagine a partire dal mio fisico e dal mio modo di muovermi. Confezionò lei stessa il mio primo abito, con una strana stoffa quasi serpentina, chiara e luminescente e con una parte superiore di merletto con il collo alto e intessuta di piccole perline. Il cappotto nero di velluto appartenne ad una mia prozia che amavo molto. La valigia, scrostata e antica, molto importante, mi fu regalata da Walter Pretolani. In seguito i costumi vennero modificati. Su disegno di Ursula, Marta Benini, sarta strepitosa, realizzò un costume viola di seta, sotto il quale indossavo il costume nero che mi accompagna nel finale, dopo una svestizione a vista. Nella prima versione indossavo invece, dopo essermi tolta il vestito chiaro, un abito nero di ciniglia non certo lussuoso, ma funzionale nella sua nudità. Nella svestizione, dolorosa e liberatoria, come fossi un serpente, mi toglievo le scarpe e restavo a piedi nudi.
La scrittura fu complessa: assecondavo l’intuizione e gli snodi suggeriti dall’improvvisazione, ma sempre confrontandoli con i documenti, con i fatti, con le date. Percorrevo in alternanza due strade parallele senza mai abbandonarle: quella della creazione a partire dalle suggestioni e quella della storia, per come era arrivata a me. Mi divertivo a sentire piano piano come riuscissi a prevedere le virate della biografia personale e artistica attraverso un processo di empatia ed immedesimazione.
Entrai in aprile nel Palazzo, impolverato, enorme, chiuso, bellissimo.
Individuai quali fossero le mie stanze, tra le decine e decine possibili.
Scelsi quelle del piano nobile, nude, alte, con gli affreschi scrostati.
La prima ospitava, come ricordo degli ultimi abitanti abusivi, un tavolo, l’unico camino ancora integro (gli altri erano stati devastati da ladri d’arte e vandali), una cucina economica bianca ancora funzionante che accendemmo subito. Pioveva ed era freddo, come era potente la mia paura di non riuscire ad affrontare l’incontro con lei.
Gli amici mi accompagnavano.
Tranne loro, pochi capivano cosa stessi facendo. Marco (Sgrosso) era in tour con l’ultimo spettacolo di Leo, Come una rivista, progetto prima del quale avvenne la separazione.
Non avevo produttori, non avevo repliche, non avevo prospettive.
Desideravo soltanto delineare il mio racconto, andare in profondità nelle ragioni del teatro tenuta per mano da un’artista grande e accompagnata dai miei collaboratori.
Il copione si andava formando con fisici copia e incolla a suon di carta, forbici e appunto, colla. Ritagliavo, montavo, cambiavo.
Poi facevo le prove improvvisando a partire dai materiali drammaturgici e mi rendevo conto che dovevo di nuovo spostare, mutare, trasformare. La scrittura, la scena, i passaggi, la fisicità del Palazzo erano una cosa sola e l’esperienza nutriva il pensiero, come la concentrazione a tavolino dava materiali per l’esperienza.
La fisionomia delle stanze contribuì alla drammaturgia: ad esempio una stanza sfondata da una bomba nell’ultima guerra fu quella che ospitò la lettera di Duse sul soldato. La cosa che mi sorprese poi, nel passaggio alla versione per il teatro fu che le scelte drammaturgiche di montaggio siano comunque rimaste le stesse, anche in uno spazio unico e sintetico.
Quei giorni furono magici e intensi: sentivo che si stava costruendo un percorso importante per me, anche se non immaginavo quanto. Lilith Grassi, oggi astrofisica, compagna del musicista Andrea Agostini, venne al Palazzo per fotografarmi nei panni dusiani. Non avevo ancora il costume e quindi usai il povero vestito nero. Quelle foto ancora mi accompagnano, disegnando anche i primi momenti nei quali finalmente prendevo il coraggio di presentarmi al pubblico come autrice. Era sempre troppo tardi rispetto ai miei desideri e alle scrittura, della quale già da tempo mi occupavo, ma che, senza il teatro con le sue scadenze imperiose, non avrei mai licenziato per eccesso di pensiero e di autocritica.
Mangiavamo nel palazzo, eravamo i nuovi abitanti. Era casa e teatro, il mio sogno di un teatro in mezzo alla campagna.
Anticamente era il sogno di un teatro in mezzo al grano, come una bevanda sotto il sole, canta Paolo Conte. Era il sogno di riaprire gli spazi al pubblico, come stava accadendo, sotto la nostra spinta e attraverso gli spettacoli e gli eventi, per il Teatro Comunale di Russi, la Chiesa in Albis del 700 nella piazza, il vecchio macello, il palazzo della Biblioteca.
L’amministrazione di allora era entusiasta e non si ritraeva nel concedermi l’uso di locali spesso pericolosi, confidando nella nostra attenzione ed esperienza nel creare un percorso assolutamente sicuro per il piccolo numero di spettatori ammesso alle due repliche di prova del lavoro. Nessuno di questi spazi ci è mai stato dato in gestione, anche parziale, anche per pochi mesi. Abbiamo soltanto potuto usufruire degli spazi, e non sempre, limitatamente alla loro disponibilità. Le richieste sono diventate sempre più complesse da redigere, le difficoltà moltiplicate: abbiamo desistito quest’anno. Lo scorso anno, con Intorno a Macbeth nel Palazzo di San Giacomo, spettacolo per 9 attori di levatura nazionale e un musicista, ho chiuso la mia esperienza di testarda pioniera. Troppi i lavori e i pesi da gestire contemporaneamente e senza aiuto delle istituzioni locali.
Invitai un pubblico di amici, gli attori del laboratorio permanente di Russi, Marco, Claudio Meldolesi e Laura Mariani – che Gaetano andò a prendere a Bologna per vedere una prova in una notte di tempesta perdendosi con loro nelle campagne. Era partito impavido senza rendersi conto che lui stesso non conosceva ancora bene la zona. I navigatori non esistevano. I loro pensieri affettuosi e sapienti furono importanti per me.
Alla fine della prova generale ci fu l’irruzione dei carabinieri che pensavano che gli antichi spacciatori un tempo padroni del palazzo fossero tornati. Trovarono noi al lume di candela che mangiavamo le cotolette che ci forniva mia madre. Finì tutto in un incanto di brindisi increduli.
Le repliche furono di un’emozione per me indescrivibile. L’ultima terminò con un temporale potente, proprio come si concluse la mia prima esperienza nel palazzo. Ancora una volta un pianto, un congedo.
La trasmissione al pubblico dei miei intenti arrivò in pieno. Davanti a loro scoprii quanto ero andata in profondità dentro me stessa e dentro le ragioni che mi legavano e mi avvincono alla mia arte. Mi regalarono una pietra che ancora di tanto in tanto guardo.
Fu un anno decisivo di trasformazione, come artista e come persona. Fu l’anno del coraggio e della viltà, della vita e della fuga dalla vita.
Sapevo che ora stavo percorrendo la mia strada maestra, tante volte in passato evitata. Ero autrice e dedicavo tutto al teatro, proprio come aveva auspicato il mio maestro Leo, una gioia e una condanna, la mia via per amare il mondo e per dare il mio contributo agli altri. Proprio nel 2000 Leo ebbe la disavventura che lo portò lontano da noi. Lui che fu il primo a credere in noi e allo stesso tempo ad avversare il nostro lavoro autonomo, lui che venne fino al Palazzo nella campagna nel lontano 1993 a vedere quello che combinavamo con i trenta non professionisti coraggiosi del laboratorio, lui, il mio lavoro su Duse, non l’ha visto mai.
Ma io, senza saperlo, avevo un tesoro: avevo creato una struttura tenace ed elastica che in seguito riuscii ad adattare e trasformare assecondando spazi, scorrere del tempo, occasioni, ispirazioni. Lo spettacolo era scritto per sempre dentro di me. Avevo una serie di cassetti di materiali drammaturgici e immagini che, pur non entrati nello spettacolo allora, sarebbero entrati in futuro, come sorprese, nuove illuminazioni, nuove comprensione arrivate con l’esperienza e il tempo che passa e insegna.

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“NON SENTIRE IL MALE”: PRIMA REPLICA IN TEATRO - APRILE 2001

Nel 2000 avevo appena vinto il premio Ubu per il lavoro con Claudio Morganti intorno al Riccardo III, Le regine, il III Riccardo III e l’allestimento finale in collaborazione con Il Teatro di Roma e la Biennale di Venezia.
Quindi, appena si sparse la voce che stavo lavorando su Eleonora Duse, fui invitata in diversi Festival estivi e poi nelle stagioni invernali. Ne sono consapevole ora. Allora ero talmente impegnata in progetti molteplici e diversi che non avevo il tempo di capirlo e l’incoscienza mi salvava dall’ansia di prestazione.
Cristina Palumbo, veneta di Mirano, fu la prima a chiedermi lo spettacolo per la stagione di Mira a Villa dei Leoni, un posto mitico per la storia del teatro di quegli anni. Aveva ospitato artisti grandi e scomodi come il mio maestro Leo e molti altri, staccandosi dalla programmazione delle altre città, spesso molto tradizionale se non banale.
Cominciai così ad immaginare una traduzione delle mie ‘stanze’ in un solo spazio molto più astratto e duttile, che potesse ospitare le tante anime di Eleonora, il mio racconto, le evocazioni degli altri personaggi.
Ero molto incerta se lasciare che le luci le disegnasse Loredana Oddone, che mi aveva accompagnato fin qui, o se chiedere al suo e mio maestro Maurizio Viani, creatore delle luci di Leo, di aiutarci nel difficile salto. Decidemmo insieme che sarebbe stato bello trovare un rapporto con Maurizio anche al di fuori della compagnia di Leo. Stranamente non ho ricordi chiari riguardo a chi si occupasse del suono. Di certo non era Raffaele che non conoscevo e quindi non potevano essere che Nico Carrieri o Roberto Passuti. E pensare che ora la mutevolezza del suono e la persona che si occupa di questa parte tanto delicata sono per me come attori in scena! Evidentemente la struttura fissa delle musiche, le loro entrate e uscite precise decise da me diminuivano rischi e piaceri dell’improvvisazione.
Prima di tutto fu necessario un doloroso e rigoroso pensiero che diventò un intento: nella sintesi del palco, nel vuoto della scena nera, non si riuscì a trovare un posto per gli oggetti preziosi di Carluccio, per i suoi teli dipinti, per tutte quelle scene che erano state pensate per la verità concreta del palazzo abbandonato e che ora risultavano superflue e, nella loro verità, quasi fasulle. Fu difficile accorgersi che il lavoro e la presenza di Carluccio, tanto necessari negli spazi non teatrali, minavano la spaziale solitudine di cui aveva bisogno la figura Duse in teatro. A volte esistono leggi del teatro che possono mettere in crisi le migliori intenzioni. Ed è un’altra dura lezione.
Pensando all’isolamento dusiano, alle stanze d’albergo da lei spesso citate, alla dimensione di ricerca interiore inseguita nel corso del lavoro, Maurizio immaginò una stanza costruita dalle quinte nere e con una porta alta e stretta in fondo dalla quale entravano fasci di luce che nascondevano e rivelavano, raccontando l’apparizione dusiana attraverso ombre e controluce.
In scena c’erano rimaste soltanto una sedia nera di legno comprata da un robivecchi, una stufa antica con la sua serpentina rossa portata da Loredana e un tavolino di legno molto piccolo, di quelli che servono nei circoli e nei bar di Romagna per tenere le tessere del ma-jong.
Sul tavolino c’era un bicchiere pieno a metà di vino rosso, pronto per il brindisi propiziatorio ai morti della guerra, ai morti del teatro, al pubblico, buon amico di Viani e dei nostri discorsi notturni.
Una luce rossa di taglio, che veniva dalla porta in fondo, sostituiva la sala del palazzo sfondata dalla bomba, quando parlavo della guerra e della sua follia.
Ma gli oggetti mi sembravano ancora troppo materiali, non armonici, poco misteriosi.
Mentre la nudità scrostata del palazzo non aveva bisogno di essere cambiata se non attraverso poche e sapienti luci (sempre Loredana), la scena, per vivere e parlare, aveva bisogno che qualcosa mutasse, fosse velato, invecchiato, impolverato, proprio come quelle stanze abbandonate.
Allora presi dal magazzino – la casa di campagna nella quale era rimasto a vivere lo zio Lino ormai non più contadino - dei teli di garza che ci furono regalati dagli amici di teatro di Alfonsine per ringraziarci del nostro lavoro di laboratorio e della riscoperta, anche lì, di spazi mai utilizzati per il teatro attraverso spettacoli arditi che conquistarono il pubblico.
Quelle garze lunghe e strette, bianche ma non troppo, trasparenti, ma non troppo, erano perfette per coprire tutti gli oggetti, come se Duse entrasse in una villa abbandonata per l’estate, in un palazzo dimenticato, in una stanza d’albergo non ancora preparata, in un teatro addormentato, nello spazio misterioso della sua scrittura, con i suoi esclamativi, lineette, a capo, tutti segni e disegni di emozioni dell’anima tracciati su carta bianca come i miei teli.
I teli coprono ciò che vuole stare nascosto, ma che, nascosto, sussurra continuamente di voler essere svelato. Quindi uno dei gesti più forti, insieme a quello della svestizione, che avveniva di spalle, in una luce blu scura di taglio, è diventato quello di sollevare i teli, una volta che Duse decide di abbandonare il teatro e di cercare la vita semplice e vera, la sua casa, la pace. Ma ancora una volta il demone del teatro la insegue. I suoi sogni non si realizzano e torna alla sua vita nomade che è l’unica che la calma, l’inquieta, la fa sentire del tutto viva.
E non è certo D’Annunzio, che evoco fin dalle prime scene, ma del quale non voglio mai parlare, che la può fermare: quando diventa più vicino, verso il finale dello spettacolo, mi pare che la mia Duse lo veda come una speranza di permanenza, un’incarnazione del sogno d’amore e poesia che lei ha sempre inseguito, ma rimane anche come sempre incredula, sarcastica, ironica, ribelle. Segue il suo istinto e spesso si sottrae alle prove estenuanti e, dal suo punto di vista, inutili. Le prove, dice, io le ho fatte tutte da bambina.
Come un sollievo e come una sconfitta arriva la sostituzione con Irma Gramatica, a causa della malattia di Duse: non avviene più, come nella versione itinerante, in una stanza con il pavimento bagnato e una città sullo sfondo illuminata nella notte, ma nella luce dell’inizio e poi piano piano in una luce nuda e azzurrina, quasi bianca, semplice e cruda.