testo, regia, interpretazione Elena Bucci
musiche originali al pianoforte Fabrizio Puglisi
luci Loredana Oddone - drammaturgia e cura del suono Raffaele Bassetti
maschera Stefano Perocco di Meduna - aiuto regia Nicoletta Fabbri
grazie a Davide Reviati e al suo libro Sputa tre volte
una produzione Le belle bandiere
in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi
debutto: 20 giugno 2017 - Fonderie Teatrali Limone, Moncalieri (TO)
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La voce che guida questo coro di storie e personaggi è ispirata alla
figura di Bronislawa Wajs detta Papusza, cioè Bambola, una poetessa e
cantante rom nata e cresciuta in Polonia, dove visse da nomade per
trent’anni con la sua kumpania. Durante la Seconda Guerra Mondiale
sfugge alla persecuzione nazista, il Porrajmos, nascondendosi nei boschi
ucraini. Eredita dalla madre il talento e la capacità di elaborare i
canti e le favole tramandati oralmente fino a renderli storie e poesie
nuove e originali. Fin da bambina partecipa alle veglie e alle feste
notturne per ascoltare e memorizzare il repertorio zingaro, come un
registratore vivente sempre acceso, mentre impara a leggere e a scrivere
chiedendo aiuto ai fortunati che potevano andare a scuola. Il suo
soprannome si diffonde tra tutte le tribù e il suo talento viene vissuto
come un dono per tutti. Le favole tramandate dal passato diventano,
attraverso la trasformazione di Bambola, arte viva del presente, alla
quale si aggiungono le sue storie originali. Questa artista,
perfettamente integrata nella sua comunità e ad essa molto legata, viene
convinta da uno scrittore e studioso a mettere su carta la sua
ricchezza di memoria, ad esibirsi nei teatri, ad essere registrata e
pubblicata. Questo atto di rispetto e di omaggio verso una cultura
spesso ignorata e sottovalutata viene letto da tutte le comunità prima
con orgoglio – quando i teatri si riempiono per acclamare – e poi come
un tradimento – quando Bambola, dopo essere stata gradualmente sottratta
alla sua nomade quotidianità, viene usata dal potere politico come
simbolo della necessità di integrare, snaturandole, le comunità
cosiddette 'zingare', trasferendole in artificiali campi stanziali dove
le condizioni di vita sono spesso inaccettabili. Bambola rimane sola e
sospesa tra due mondi e due culture, entrambi irriducibili e prepotenti.
Non appartiene più a niente e a nessuno, punita da opposti conformismi
per il suo desiderio di essere semplicemente e profondamente cittadina
del mondo. Trova uno degli ultimi rifugi proprio in Italia.
La vita di Bambola sembra una favola che porta con sé domande sulla libertà, l’appartenenza, la difficoltà di superare le differenze di culture e di pensiero, la discriminazione, l’emarginazione, la violenza di coloro che si credono dalla parte del giusto. Ci fa riflettere sulla questione della proprietà delle idee e della creazione artistica, sul posto che le società assegnano al talento e agli artisti, sulla necessità di ritrovare i riti che possano costruire comunità aperte.
Affronto domande e pensieri usando danza, racconto, canto e una maschera che mi aiuta a liberarmi di me per provare a sentirmi lei. Raccontare la sua storia significa per me attraversare la paura della solitudine, del conformismo, del rifiuto e allo stesso tempo sperimentare ancora una volta il potere della poesia e dell’arte, che liberano e guariscono.
Penso ad un mio vecchio maestro di teatro istriano che, venuto in visita nella terra dove sono nata, riconosceva nei nostri volti i tratti ereditati dal passaggio degli zingari. Penso a come, viaggiando, i nomadi abbiano continuato a raccogliere e a mescolare musiche e racconti diventando elaboratori viventi di temi antichi che forse tutti un tempo avevamo in comune.
Un documentario racconta di un’antropologa che cerca le origini di un canto ereditato dai suoi vecchi. Si mette in viaggio e incontra gli interpreti e le versioni più disparate della stessa melodia. Ogni cantante, ogni musicista, ogni autore, ogni paese rivendica come sua quella canzone.
Nel finale tutti riescono a cantare in coro.
In quel coro vedo anche Bambola, vedo anche noi.
La vita di Bambola sembra una favola che porta con sé domande sulla libertà, l’appartenenza, la difficoltà di superare le differenze di culture e di pensiero, la discriminazione, l’emarginazione, la violenza di coloro che si credono dalla parte del giusto. Ci fa riflettere sulla questione della proprietà delle idee e della creazione artistica, sul posto che le società assegnano al talento e agli artisti, sulla necessità di ritrovare i riti che possano costruire comunità aperte.
Affronto domande e pensieri usando danza, racconto, canto e una maschera che mi aiuta a liberarmi di me per provare a sentirmi lei. Raccontare la sua storia significa per me attraversare la paura della solitudine, del conformismo, del rifiuto e allo stesso tempo sperimentare ancora una volta il potere della poesia e dell’arte, che liberano e guariscono.
Penso ad un mio vecchio maestro di teatro istriano che, venuto in visita nella terra dove sono nata, riconosceva nei nostri volti i tratti ereditati dal passaggio degli zingari. Penso a come, viaggiando, i nomadi abbiano continuato a raccogliere e a mescolare musiche e racconti diventando elaboratori viventi di temi antichi che forse tutti un tempo avevamo in comune.
Un documentario racconta di un’antropologa che cerca le origini di un canto ereditato dai suoi vecchi. Si mette in viaggio e incontra gli interpreti e le versioni più disparate della stessa melodia. Ogni cantante, ogni musicista, ogni autore, ogni paese rivendica come sua quella canzone.
Nel finale tutti riescono a cantare in coro.
In quel coro vedo anche Bambola, vedo anche noi.
“Una società che non rispetta i vecchi, i bambini e gli artisti odia se stessa.” (Eleanor Szabo, Nuova antropologia)